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Attualità

Vladimir Putin, psicobiografia di un tiranno

di Salvatore Capodieci

Introduzione

Il dizionario etimologico (Cortellazzo & Zolli, 1983) definisce l’invidia “un sentimento di astio e di rancore per la fortuna, la felicità o le qualità altrui” e anche “senso di ammirazione per i beni e le qualità altrui”; deriva dal latino invidere (guardare di traverso, con occhio bieco).

Il rammarico e il risentimento sono provati dall’invidioso sia che si consideri ingiustamente escluso da tali beni sia che, già possedendoli, ne pretenda il godimento esclusivo.

Una definizione generica di invidia, che può trovare la maggior parte degli studiosi d’accordo, è che si tratti di un sentimento ostile che culmina nella cattiveria e nella malizia che origina dalla percezione della superiorità o di qualche vantaggio posseduto da un altro. La percezione cioè di una differenza: esiste una situazione nella quale alcuni hanno qualcosa e altri no!

Proverò in questo articolo a offrire un contributo alla comprensione della guerra Russia-Ucraina attraverso il vertice osservativo offerto dall’analisi del vissuto invidioso.

Premessa storica

Il primo atto di invidia nella storia dell’uomo creò il vero significato dell’esistenza: fu infatti “per l’invidia del diavolo che la morte entrò nel mondo” (Sap. 2,24).L’invidia di Lucifero verso Dio gli fa dire: «Io salirò in cielo, eleverò il mio trono al di sopra delle stelle e di Dio; […] salirò sulle sommità delle nubi, sarò simile all’Altissimo» (Isaia 14:13-14).

A quella prima apparizione dell’invidia ne seguirono altre: l’invidia di Caino nei confronti di Abele, prediletto da Dio, fu la causa del primo omicidio; quella di Esaù verso Giacobbe, favorito nella successione, seminò la di­scordia nella famiglia; sempre per invidia Giuseppe fu venduto come schiavo dai suoi fratelli e Davide fu perseguitato da Saul; e ancora per invidia gli ebrei consegnarono Cristo a Pilato.

L’invidia doveva apparire un male diffi­cilmente evitabile, da cui nessuno risultava escluso, neppure i bambi­ni dal momento che Sant’Agostino consegna questa immagine inquietante: «l’ho visto e conosciuto un bambino invidioso: non parlava ancora e già guardava livido il suo fratello di lat­te».

Eppure questa invidia, generatrice di molti mali, non compare nel­ primo elenco dei vizi capitali. È stato papa Gregorio Magno che le conferì un posto di rilievo nella sua classificazione collocandola al secondo posto, subito dopo la superbia. Inserire l’invidia tra i vizi capitali fu per Gregorio non solo una necessità, ma anche un modo per richiamare l’attenzione sulla diffu­sa presenza di questo vizio nella società (Casagrande & Vecchio, 2000).

Nella dottrina cattolica i vizi capitali sono sette peccati corrispondenti alle principali passioni e in tutti c’è un elemento, anche se transitorio, di piacere e soddisfazione.

Questo aspetto non si ritrova invece nell’invidia: l’invidioso è infatti un individuo che soffre; non prova nessun piacere nel momento in cui vive l’invidia, anzi nel cedere a questa passione prova rancore e sofferenza.

In chiave fenomenologica è altresì difficile individuare un esito preciso all’invidia: la superbia può correlarsi al narcisismo e l’avarizia all’analità ossessiva, l’ira può sfociare nei comportamenti aggressivi e la lussuria in altri aspetti narcisistici o nella perversione, la golosità può far insorgere disturbi alimentari e l’accidia la depressione. Ma l’invidia che esiti psicopatologici può contenere al suo interno nella misura in cui contiene rammarico, risentimento e dolore?

Non è allora un caso che Dante collochi gli invidiosi in Purgatorio e non nell’Inferno dal momento che chi ha provato invidia ha già sofferto sulla terra. Dante pur non conoscendo il termine “schadenfreude”, che significa “piacere provocato dal vedere la sfortuna dell’altro”, sembra illustrarlo molto accuratamente cucendo gli occhi degli invidiosi con il fil di ferro.

La Riforma protestante (specie il calvinismo), preludio del capitalismo, ha trasformato l’invidia in competitività (Weber, 1904-05), ma nel secolo successivo con il Concilio di Trento (1545-63) la Chiesa Cattolica recuperava il concetto di comunità solidale e di carità caratteristici del primo cristianesimo. Questo egualitarismo guardava di sbieco (invidia) chi voleva emergere distinguendosi dalla massa e tendeva a combattere l’individualismo proponendo l’uguaglianza nella fraternità e combattendo l’egoismo e la ricchezza dei benestanti.

Saranno l’ Illuminismo, l’industrializzazione e la modernità che porteranno non più all’altruismo fondato sulla carità cristiana, ma a una concezione universale di alterità in un nuovo contesto di produzione di beni materiali e di crescente ricchezza delle nazioni, che sarà alla base di grandi cambiamenti sociali e della diffusione democratica della giustizia e dell’uguaglianza sociale; da qui nasceranno i diversi aspetti dell’invidia: tra i sessi, le professioni, nella politica, nell’arte, eccetera (De Nardis, 2000).

L’aspetto simbolico del denaro e dell’accumulazione di proprietà, che hanno caratterizzato la società moderna, rappresentano la prospettiva migliore per analizzare l’invidia: desiderio del possesso e sofferenza di non poter avere oggetti e ricchezza possedute da altri (‘ingiustamente’ secondo l’invidioso).

Renè Girard (1990) affermava “l’uomo si differenzia dagli altri animali in quanto è il più incline all’imitazione” recuperando la teoria della mimesis platonica. Ogni apprendimento si riduce all’imitazione e se, ipoteticamente, gli uomini smettessero di invidiare, scomparirebbero tutte le forme culturali. 

Dall’imitazione si passa al desiderio e quando l’oggetto del desiderio è posseduto da un altro, quest’ultimo diventa specchio del Sé in quanto termine di riferimento in un ambivalente vissuto di ammirazione e rancore che porta a un’immediata conflittualità. L’elemento che fa nascere il desiderio diventa la personificazione dello stesso, quindi il possesso realizzato dall’altro diventa il mediatore del desiderio, nei riguardi del quale scattano rivalità, competizione e appunto l’invidia.

Questa ‘moderna’ forma di invidia non cancella quella precedente rivolta contro la felicità, il benessere e il successo altrui; il riferimento storico è in questo caso l’invidia di Salieri per il talento, la genialità, il successo di Mozart e per la sua stessa esistenza così come lo descrive Alexander Surgueievich Pushkin nel 1830 (Etchegoyen&Nemas, 2003).

Il principale effetto dell’invidia non è quindi un proprio desiderio da realizzare, quanto piuttosto un evitare che altri realizzino il loro ovvero togliere all’altro ciò che si ritiene prezioso.

In ambito psicoanalitico Paolo Roccato (1991) sintetizza una definizione di invidia con queste parole: “L’invidia è il dolore della percezione delle differenze con proprio svantaggio”.

La prospettiva psicosociale

Le emozioni primarie (rabbia, gioia e paura) sono universali e ubiquitarie mentre, il sentimento invidioso, che espressività ha nei diversi contesti sociali?

Nella società statunitense, secondo Stearns e Stearns (1986), la collera è un nemico che è stato domato e allontanato, mentre l’invidia quale emozione prodromica dell’aggressività è invece probabilmente aumentata. Sicuramente è accresciuta la ricerca del successo, vissuto che al contrario è negato nei paesi latini dove si ha una sorta di vergogna ad ammettere di ricercarlo.

Non è sempre facile altresì riconoscere che la competizione sia un aspetto utile perchè un sistema sociale lasciato in balia di se stesso fa accrescere l’invidia che, nascendo dall’ammirazione e dall’identificazione, circola nei rapporti di prossimità ed emerge quando si scopre di essere stati superati da qualcuno di pari livello che non si riesce a emulare. Cosa accade a questo punto? Si accetta il successo altrui o si comincia a desiderare la sua rovina? La fenomenologia dell’invidia prevede che si blocchi l’azione finalizzata al raggiungimento dell’obiettivo e si desidera esclusivamente che quest’ultimo non venga raggiunto dall’altro.

Psicobiografia di un tiranno

Nel periodo prebellico si sono occupati del profilo psicologico di Putin due studiosi: lo psichiatra americano Kennet Dekleva e l’ingegnes e e psicologo russo Vladimir Zakharov.

Il primo, nel gennaio del 2017, scriveva su The Cipher Brief l’articolo “The ManyFaces of Vladimir Putin: A Political Psychology Profile”[1], dove raccontava che nel 2000 il presidente russo Vladimir Putin, allora poco conosciuto fuori dalla Russia, visitò il Giappone. Durante il viaggio a Tokio, in occasione del G8,fece una visita al Kodokan, la storica scuola di Judo fondata da Jigoro Kano, e partecipò a una dimostrazione sportiva, mettendo in mostra le sue abilità nelle arti marziali con un esperto atleta giapponese, che però lo atterrò con una classica mossa di judo. Putin, dopo l’inchino e un sorriso, ricevete dalla folla presente un’appropriata ovazione.

Diversi anni dopo, in seguito al tragico attacco terroristico di Beslan del 2004, dove oltre 300 scolari persero la vita, Putin, emotivamente sconvolto, parlò a una nazione addolorata, ricordando che la Russia che era stata colpita a causa della sua debolezza.

Questi brevi resoconti rivelano – sottolinea Dekleva – diversi lati del leader russo che, cresciuto all’ombra del ricordo dell’assedio di Leningrado,si ritrovava da bambino a conversare a volte con i genitori che erano rimasti traumatizzati e molto provati dalla guerra.

L’ascesa al potere di Putin è stata parallela al quella del ritorno della Russia alle precedenti glorie.

Lo psichiatra scrive che Putin rimaneva – anche dopo 16 anni che era al potere – un leader enigmatico e poco compreso. Probabilmente, a causa di tale incomprensione, le tensioni tra la Russia e Occidente (in particolare gli Stati Uniti) sono aumentate accrescendo il rischio di ulteriori conflitti. Gli eventi che hanno portato alle accuse di guerra informatica russa, di pirateria online rispetto alle elezioni americane del 2016 e le azioni militari a sostegno del presidente siriano Bashar al-Assad hanno evidenziato un assunto fondamentale: comprendere le azioni politiche della Russia, soprattutto nella sfera della politica estera, richiede un’analisi sobria e acuta della psicologia politica del presidente Putin arrivando a una profonda comprensione dei suoi diversi volti, da quale sensibilità e umanità è caratterizzato e quali idee e sentimenti lo governano.

Secondo Dekleva molti profili psicologici di Putin hanno mancato l’obiettivo etichettandolo come un “teppista” o descrivendolo come un semplice strumento di strutture o gruppi di potere più grandi e intricati, come i siloviki, le strutture militari, le forze dell’ordine e l’intelligence russa. Tali analisi del comportamento politico di Putin hanno a volte portato alla mancanza di capacità predittive riguardo le azioni della Russia o a intensificate previsioni emotive relative al timore di una nuova Guerra Fredda o a un conflitto militare tra Russia e Occidente. Solo un’attenta lettura degli scritti, delle interviste e dei discorsi di Putin – affermava Dekleva–può offrire una ricchezza di materiale, che consentirà, se valutata con la giusta attenzione,di rivelare i molti volti di Vladimir Putin, compresi quelli di politico, ufficiale dell’intelligence, esperto di arti marziali e diplomatico.

In qualità di leader, Putin ha ottenuto enormi successi nel portare la Russia fuori dalla palude politica ed economica degli anni ‘90, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, che lui stesso ha definito “una delle più grandi tragedie del 20° secolo”. L’aumento dei prezzi del petrolio e del gas naturale, nel corso degli anni 2000, ha comportato un significativo impatto sull’economia russa favorendo l’aumento del tenore di vita di questo paese e facilitando capacità organizzative, disciplina e gestione della politica interna da parte di Putin che ha potuto svolgere così un ruolo significativo nella ripresa politica ed economica della Russia.

Quello che è sfuggito a molti analisti – sottolinea lo psichiatra – è stato il revanscismo di Putin, il suo potente desiderio di rinnovamento dell’orgoglio russo e del posto occupato dalla Russia nel mondo, e di quanto questo abbia una forte fascinazione sul piano sociale, emotivo e psicologico per il popolo russo.

Questo spiega gli altissimi e pervasivi indici di popolarità politica ottenuti da Putin – superiori al 70-80 % per la maggior parte del suo mandato – che nessun altro politico russo ha mai eguagliato. Nonostante il suo stile di gestione del potere appaia forte, deciso e autoritario– può essere percepito come una sorta di De Gaulle della Russia – Putin è riuscito a riunire molti politici, economisti, diplomatici, militari e personale dell’intelligence nella struttura di potere della Russia.

Nel 2003, quando un giornalista aveva a chiesto a Putin quale paese straniero stimasse di più, aveva risposto: “Israele, perché hanno costruito un paese dal nulla, dal deserto, e hanno resuscitato una lingua morta!”. Infine, nonostante Putin sia stato spesso visto dai media occidentali come un politico eccessivamente rigido e privo di emozioni, in certi casi ha dimostrato il contrario. Ad esempio, dopo il suo ritorno alla presidenza nel 2013, la TV lo ha mostrato in lacrime durante il discorso ai suoi sostenitori.

Il passato di Putin, come ufficiale dell’intelligence del KGB, ha connotato la sua intera vita professionale. Il KGB ha plasmato la sua etica e il suo senso di identità diventando l’incarnazione di un sogno infantile. È prevalsa la tendenza a vedere Putin come meramente tattico piuttosto che strategico, ma tale visione è sbagliata [2].

Vedere tali aspetti come dicotomici, piuttosto che come due facce della stessa medaglia, fa perdere di vista l’adattabilità di Putin alle sfide di politica estera, come Ucraina, Georgia, Siria, Cina, India, Stati Uniti e l’Europa. A volte, Putin ha mostrato una magistrale flessibilità sapendo invertire la rotta e cambiando le priorità, senza allontanarsi dai principali obiettivi strategici e dal suo profondo senso per l’interesse nazionale.

Un’altra preoccupazione riguarda la stretta cerchia di consulenti di Putin, che conosce o con i quali lavora da decenni: di chi si fida e chi ascolta? E come vengono prese le decisioni strategiche?I cambiamenti del personale all’interno del Cremlino e nei ministeri chiave meritano un attento studio al riguardo, aggiungeva Dekleva.

Secondo lo psichiatra americano, le arti marziali e lo studio del judo hanno probabilmente plasmato la personalità di Putin. Studente di Judo dall’età di 10 anni, Putin detiene l’8° dan; è il judoka non giapponese più titolato al mondo e un vero ambasciatore di quest’arte [3].

E, infine, le amicizie di una vita di Putin, non solo quella di tantissimi anni con il suo Sensei (il suo insegnante di arti marziali scomparso alcuni anni fa) ma anche con i suoi compagni di judo, hanno avuto un impatto sulla sua vita politica, personale e lavorativa. Putin ha abilmente utilizzato la “diplomazia delle arti marziali” per approfondire relazioni personali informali e molto note con praticanti delle arti marziali, come l’attore statunitense Steven Seagal (che detiene il 7° dan nell’aikido e al quale Putin ha concesso cittadinanza russa onoraria nel 2016), per promuovere i propri obiettivi politici e strategici.

Studente di tedesco – la lingua del nemico – fin dall’infanzia, possiede una notevole scioltezza di linguaggio e ne sa cogliere la potenza, l’emozione e la bellezza, come è emerso nel discorso al Bundestag nel 2001, in cui ha parlato del suo desiderio di affrontare il pubblico nella “lingua di Goethe, Schiller e Kant”. Ha anche studiato inglese e lo ha utilizzato per far colpo durante la sua presentazione al CIO (Comitato olimpico internazionale), in merito alla proposta olimpica russa di Sochi. In sintesi, la miscela di abilità linguistiche e di relazioni personali fa parte di una lunga tradizione all’interno dei circoli diplomatici e di intelligence russi.

La Russia – continuava Dekleva – nonostante tutte le sue debolezze economiche, politiche e demografiche, ha troppa importanza strategica perché l’America possa ignorla. Durante una visita ufficiale a Mosca nel 2011, il vicepresidente Joseph Bidenaveva affermato in modo eloquente che una Russia forte e prospera è nell’interesse nazionale americano. Tale annuncio – sottolineava lo psichiatra – non è meno vero oggi;quello cheè meno probabile è chei tradizionali approcci delle scienze politiche alla comprensione di Putin, nell’esaminare il funzionamento del Cremlino, diano i loro frutti.

Il modo migliore per comprendere Putin consiste nell’impegnarsi in uno stile diplomatico altamente personalizzato e vecchio stile, che enfatizzi il rispetto reciproco e la forza, che apprezzi il profondo senso della storia della Russia e una comprensione basata sui reciproci interessi nazionali.

Kennet Dekleva concludeva il suo articolo rivolgendosi a chi studia lo stile della leadership di Putin suggerendo di iniziare guardando il film documentario di Hubert Seipel del 2012, “Ich, Putin” e di vedere Putin attraverso il prisma della storia e della cultura russa. Forse in questo modo si potrebbe arrivare a una verità più profonda: comprendere veramente il presidente russo Vladimir Putin significa accettare le sue caratteristiche russe per eccellenza e impegnarsi con lui a un livello più diplomatico e personale considerandolo “un russo al Cremlino”.

Il secondo studioso del profilo psicologico di Putin è stato l’ingegnere e psicologo russo Vladimir Zakharov,fondatore e direttore del Dipartimento di Psicologia Industriale all’Università tecnica statale di San Pietroburgo, ha lavorato anche presso varie aziende statunitensie ha scritto nel 2018 “Putin’s Psychological Profile: Psychobiographical Study”.

Nel suo testo scriveva che Vladimir Putin gioca un ruolo enorme nel destino della Federazione Russa e che senza di lui non si può fare nulla. Piani statali, decisioni, eventi significativi sono impossibili senza la sua presenza e la sua approvazione. Guardando la TV, sostiene Zakharov, si può avere l’impressione che lavori da solo e che coloro che lo circondano agiscono semplicemente come un’estensione del suo potere.

“Putin – continua Zakharov – è diventato leader politico sfruttando al massimo le potenzialità fornitegli da madre natura. Per essere all’altezza della propria immagine di presidente forte ha migliorato drasticamente le sue capacità di gestione e leadership, ma non ha potuto evitare la perdita di vite umane – civili e militari. Come ogni politico, Putin deve scavalcare i cadaveri dei soldati che sacrificano la propria vita come un dovere in nome e per il bene della Russia.”

L’ingegnere-psicologo definisce Putin un curioso ibrido tra una persona che agisce in base a proprie regole e accordi e colui che deve rispettare la legge, tra essere il leader di una banda di ragazzi di strada e il supremo funzionario del governo. Ha le sembianze del funzionario sofisticato, che sviluppa e firma accordi e trattati internazionali ambivalenti (ad esempio, l’accordo di Minsk) e un bandito che deruba alcuni ricchi russi per ripristinare la giustizia sociale (come la intende lui) e poter diventare una figura più potente. Nonostante il costante appello alla legge, la esegue in modo molto selettivo anche se si tratta della stessa Costituzione della Federazione Russa.

Quando Putin non è soddisfatto di qualche accordo, di una legge o anche della Costituzione, semplicemente li ignora (ad esempio, il Trattato di Budapest sull’Ucraina, firmato nel 1994, dalla Russia, dagli USA, dalla Gran Bretagna e dalla stessa Ucraina) o lo cambia. Ha cambiato, ad esempio,la Costituzione in base alle sue esigenze: ha aumentato il mandato presidenziale da quattro a sei anni. Dire che questo cambiamento della Costituzione è stato avviato dal presidente Medvedev e poi votato dalla Duma di Stato e dal Consiglio della Federazione è – afferma Zakharov – una evidente bugia. Questa operazione è stata segretamente pianificata dall’inizio alla fine ed eseguita da un’unica persona: Vladimir Putin.

Per il cittadino russo, mette in evidenza Zakharov, è molto difficile filtrare le immagini di Putin mostrate dalla tv e dai media statali, perchéla stampa russa crea lesue immagini, mentre la stampa occidentale ne crea altre, solitamente all’opposto delle prime. Le prime lo vedono sotto una luce positiva, le seconde in una prospettiva negativa. Al tempo stesso, problemi psicologici personali e quelli complessi di politici, giornalisti e analisti, così come i problemi economici e politici della Russia, vanno a incidere tutti sull’immagine di questa persona.

Questi profili di uno psichiatra americano e di uno psicologo russo, realizzati in un’epoca che non faceva presagire la situazione attuale, forniscono alcuni importanti elementi psicobiografici sul presidente della Russia.

Il primo riguarda la sua passione per il judo che, pur essendo uno sport di combattimento, parte però da un metodo di difesa personale. Questa è la motivazione che Putin ribadisce sull’invasione dell’Ucraina: passare dal doversi difendere dall’accerchiamento messo in atto dalla Nato all’ inevitabile offensiva bellica.
Putin, in occasione del suo 56° compleanno, ha scritto un libro che è diventato anche un Dvd. Al suo interno si vede il presidente russo che prima parte parla della storia e della filosofia dell’arte marziale e poi,nelle numerose fotografie,lo si vede scaraventare a terra gli avversari uno dopo l’altro. È stato pubblicato anche in Italia da Mondadori nel 2001 con il titolo: “Impara il judo con Putin: la storia, la tecnica, la preparazione”.
Putin bambino ha respirato l’eco dell’assedio di Leningrado, avvenuto durante la seconda guerra mondiale, una delle più cocenti sconfitte nella guerra lampo di Adolf Hitler contro l’Unione Sovietica. Le forze armate tedesche, pur avendo programmato un assalto della durata di sei/otto settimane, incontrarono invece un’inaspettata resistenza durata anni.

Seduto a tavola, durante i pasti, Putin ascoltava i racconti dei genitori.Il padre, sabotatore dell’Nkvd, era scampato ai nazisti respirando per ore con una canna immerso in una palude; fu poi ferito da una granata.La mamma ancora viva fu salvata dal marito mentre veniva trasportata con altri cadaveri per la sepoltura e il fratello maggiore era morto di difterite a due anni in orfanotrofio.La tragedia della famiglia di Vladimir Putin, durante l’assedio tedesco di Leningrado, era stata ricordata con particolari inediti dallo stesso leader del Cremlino in un raro articolo per la rivista Ruski Pionier (Il Pioniere russo) dove Putin sottolineava che la sua famiglia «non nutriva odio per il nemico, è incredibile. 

Ad essere onesto, ancora non lo capisco completamente» confida, ricordando le parole della madre sui soldati tedeschi: «Erano gente comune e anche loro furono uccisi in guerra».[4] 

È probabile che le immagini che osserviamo oggi sull’Ucraina siano quelle che Putin bambino immaginava fossero state vissute dal suo popolo quando ascoltava i racconti dei genitori. Chi vive in prima persona la tragedia riesce anche a perdonare, come raccontava la mamma del presidente russo “i tedeschi erano gente comune e furono uccisi anche loro”, mentre i traumi transgenerazionali,come sappiamo oggi –grazie agli studi di epigenetica– possono essere legati ad alterazioni dell’espressione dei geni tramandati nelle generazioni. In letteratura compaiono sempre più ricerche che dimostrano come gli effetti di un ambiente negativo si possano riflettere sulle generazioni future. 

Carestie, guerre e catastrofi naturali verificatesi durante la vita dei genitori o dei nonni sembra possano influenzare la vita dei discendenti, suggerendo dunque che le conseguenze di una condizione ambientale possono essere ereditate (Pembrey et al., 2006).

Zakharov suggeriva che Putin sperimentasse meccanismi dissociativi passando da assetti rigorosi e rispettosi della legge a modalità antisociali, come quando scriveva che Putin oscilla tra l’essere il leader di una banda di ragazzi di strada e svolgere le attività di supremo funzionario del governo.

 

La guerra in Ucraina e il fenomeno dell’invidia 

Per concludere questo contributo, prendendo in esame la funzione svolta dal sentimento dell’invidia nelle attuali tragiche vicende belliche, utilizzerò invece alcune parti di un articolo recente– pubblicato su “il Manifesto” il 9 marzo scorso– di Giuseppe Cassisi, ex-ambasciatore e diplomatico italiano, intitolato “Il risveglio dell’orso sul baratro di una guerra d’aggressione”[5].

L’autore fa una sintesi degli avvenimenti internazionali a partire dal 1998 che hanno contribuito ad arrivare all’invasione dell’Ucraina. Alla descrizione degli avvenimenti storici presentata da Cassisi (riportata di seguito in corsivo) aggiungerò in che modo il vissuto invidioso possa aver avuto una significativa influenza sullo svolgimento dei fatti descritti.

Tra il 1998 e il 2020,  la Nato accoglie 14 nuovi membri, tutti Paesi dell’Est, circondando la Russia nel suo periodo di massima debolezza da Capo Nord fino all’Anatolia.

Questa operazione “vincente” della Nato ha degli effetti, come hanno descritto accuratamente Nietzsche (1899) e Scheler (1961), che possono provocare sentimenti di odio e risentimenti nei confronti dei membri della Nato considerati,alla luce del sentimento invidioso, come belli, forti e potenti: emozione così forte da spingere l’invidioso a convincersi che i motivi del successo siano da ascriversi al vizio (“vogliono accerchiarci per farmi fuori”) e non alle qualità presenti nell’operazione

– Nel 1999 gli attacchi aerei Nato su Belgrado nel conflitto del Kosovo, oltre che provocare vittime civili, offendono la Russia, storica protettrice della Serbia.

L’invidia si manifesta in questo caso verso la potenza che l’altro possiede. È come se l’altro possedesse una infinità di frecce al proprio arco e l’invidioso nemmeno una. Si invidia l’essere e non l’avere; essere che fa riferimento alla capacità di provare esperienze. In questa vicenda i russi sono stati dei Salieri e la Nato era Mozart.

– Nel 2001 gli USA “convincono” la Nato a invadere l’Afghanistan, nonostante siano sconsigliati dai russi e nel 2003 tocca all’Iraq.

Plutarco, nell’Arte di ascoltare, sostiene che l’invidia, pertugio verso l’avversione a chi ci sta di fronte, «spinge l’invidioso a controllare le reazioni degli ascoltatori, e se li vede assentire, compiaciuti e ammirati, s’indispettisce e si arrabbia […]. Così, a furia di disprezzare e gettare fango, il dibattito risulta inutile e insensato».

– Nel 2004 a Kiev scoppia la Rivoluzione “arancione”, che rafforza un’identità nazionale ucraina.

Parkin (1979) elabora il concetto di chiusura sociale e individua, come elementi fondanti di quest’ultima, proprio quelle caratteristiche che tendono a produrre quote sempre più alte di invidia: la proprietà, la qualifica professionale, i titoli di studio e, anche se non fa un riferimento esplicito, gli stili di vita. Riesman (1950) sosteneva che gli stili di vita si possono considerare come lo strumento utilizzato dagli individui eterodiretti per raggiungere una finalità specifica: piacere agli altri nell’omologazione. In questo caso si intrecciano le invidie della Russia e quelle del popolo ucraino.

– Nel 2007 alla Conferenza di Monaco sulla Sicurezza Vladimir Putin presenta, inascoltato, le sue ragioni.

Il leader russo, dopo aver accusato gli USA di voler alimentare i conflitti globali attraverso l’uso unilaterale della forza, autorizzò l’anno dopo l’invasione della Georgia e nel 2014 l’annessione della Crimea. L’idea di un’ingiustizia subita, come causa di invidia, sembrerebbe avere un’importanza inferiore a quanto si sarebbe portati a ritenere: l’invidia scatterebbe, invece, per lo più nei confronti di superiorità immaginarie, di differenze minime o di compensi del tutto meritati. È quella che glistudiosi australiani (Dixon, 1990; Peeters, 2004; Kirkwood, 2007) hanno definitola sindrome del“papavero alto”(tall poppy syndrome) ovvero la tendenza a buttar giù quelli che spiccano troppo nella convinzione che l’individualismo deve essere sempre temperato dal considerare la società nel suo insieme.

Dopo aver elencato altre situazioni che avrebbero visto la Russia in difficoltà, Cassisi afferma che “A questo punto l’Orso si risveglia dal letargo”, anche se a leggere con attenzione le vicende storiche non sembrerebbe essersi trattato di un vero e proprio “letargo”, e ingloba senza colpo ferire la Crimea (ceduta nel 1954 da Kruscev all’Ucraina benché abitata in maggioranza da russi). Inoltre, due regioni del Donbass a maggioranza russa chiedono l’autonomia da Kiev; per accordargliela, nel 2014/5 vengono siglati a Minsk due Protocolli, mai implementati dal governo ucraino con obiezioni interpretative.

L’articolo si conclude ipotizzando motivazioni paranoiche o ossessive dei russi sulla tematica della “sindrome d’accerchiamento” e queste angosce, tramite un meccanismo inconscio di spostamento si manifesterebbero “allungando a dismisura i tavoli e la distanza fisica tra sé e i suoi interlocutori”.

–   Giuseppe Cassisi sottolinea come Putin miri “a raccogliere le spoglie dell’impero sovietico, per ricreare sotto il suo usbergo una sorta di unione delle comunità storicamente legate alla Russia. Non c’è dubbio che l’Ucraina rientri in quel novero.

–  ” Anzi, Kiev – continua l’ex-diplomatico – è la culla medievale del popolo dei Rus’; da lì si diffuse il cristianesimo verso nord grazie alla conversione del principe di Kiev, san Vladimiro (di cui portano il nome sia Putin che Zelenski).[…] Dostoevskij definiva l’ucraino Gogol il padre della letteratura russa. Putin, facendo terra bruciata in Ucraina, ha compiuto non solo un fratricidio ma anche un parricidio.

Nell’ excursus storico sull’invidia abbiamo visto come il fratricidio sia stato spesso la tragica conseguenza dell’invidia tra fratelli.

Conclusioni

In questo contributo si sono tralasciate, ovviamente, le considerazioni di economia politica e le ipotesi sulle cause sociopolitiche del conflitto, sia perché sono tematiche che non rientrano nelle mie competenze sia perché lo scopo principale di questo articolo rimane quello di offrire una lettura psicologica della guerra Russia-Ucraina analizzando il fenomeno dell’invidia.

Non è necessario, infatti, presentare valutazioni psicopatologiche come quelle che ipotizzano che il presidente Putin soffra di vissuti persecutori che fanno parte di un disturbo di personalità paranoide oppure di sintomi maniacali con delirio di grandezza o ancora di un disturbo antisociale o narcisistico di personalità, perché lasciano il tempo che trovano e restano un puro esercizio diagnostico.

Si ritiene più utile riflettere sulle emozioni e i sentimenti che stanno alla base delle relazioni interpersonali di tutti gli individui compresi i più potenti del pianeta.

L’invidia, quale manifestazione della distruttività primaria, è presente fin dalla nascita in ogni essere umano. È stato proprio questa sua caratteristica che l’ha portata al centro dell’indagine psicologica sin dai suoi esordi anche se, nel tempo, è andata assumendo significati diversi.

Dapprima era stata assimilata ad altri affetti ad essa vicini: la gelosia e l’avidità, ma ne sono state poi riconosciute le differenze.

L’invidia compare prima della gelosia, è sempre esperita nei confronti di un oggetto parziale e non è conseguente a una relazione triangolare. La gelosia è, invece, connessa al triangolo edipico e si sostanzia dell’odio per il rivale e dell’amore per l’oggetto del desiderio.

Putin è mosso quindi da sentimenti di rancore e odio che caratterizzano l’invidia per l’Occidente che rappresenta un “oggetto parziale”. Quest’ultimo è un termine che rimanda alla teoria delle relazioni oggettuali, nata con il lavoro di Melanie Klein, e fa riferimento ai primi passi della vita psichica del neonato, al suo primitivo teatro di oggetti interni ed esterni e alle precoci fantasie che accompagnano la relazione con sé e con il mondo. 

È superfluo ricordare ancora una volta in che modo l’infanzia di Putin fosse stata contrassegnata dalle rappresentazioni dell’assedio di Leningrado trasmesse gli da entrambi i genitori che avevano riportato un grave disturbo da stress post-traumatico dalla vicenda bellica. Non si tratta di “gelosia” perché non c’è qualcuno che voglia portargli via l’Ucraina

Il presidente della Russia non è neppure vittima dell’avidità, che ha alla sua base il meccanismo dell’introiezione e che mira al possesso di tutto ciò che è percepito di valore nell’oggetto al di là delle proprie necessità. La questione non è infatti per Putin possedere l’Ucraina perché rappresenta un “oggetto di valore”, anche perché in questo caso non la distruggerebbe. È l’invidia che ha invece come scopo quello di distruggere la bontà dell’oggetto; il vissuto invidioso agisce attraverso il meccanismo chiamato dell’“identificazione proiettiva”.

Si tratta di un meccanismo di difesa psichico che fa riferimento a operazioni mentali inconsce con cui si fantastica di introdurre la propria persona o parti di sé all’interno del corpo materno per possederlo, controllarlo o danneggiarlo. Il corpo materno, percepito dal presidente della Russia, è la vecchia Unione Sovietica che l’ha accolto alla sua nascita. 

Questo meccanismo di difesa può in realtà generare più inquietudini di quante ne elimini: infatti può indurre l’ansia inconscia di essere perseguitato dall’altro, di ricevere da questo lo stesso trattamento a lui riservato oppure di perdere nell’altro le parti buone di sé.

Queste angosce animano l’apparato emotivo e il pensiero di Putin ed è difficile prevedere quando si potranno acquietare riconducendolo a quell’armonia che percepiva quando saliva sul tatami e, prima di iniziare il combattimento, si inchinava all’avversario accettando con sportività di combattere alla pari senza commettere irregolarità che violino il rigoroso codice delle arti marziali.

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Note  

[1]  https://www.thecipherbrief.com/column_article/the-many-faces-of-vladimir-putin-a-political-psychology-profile
[2] I due termini non sono sinonimi ma hanno, tra di loro, un rapporto gerarchico. In estrema sintesi si può dire che la strategia rappresenta la destinazione e la modalità con la quale si vuole raggiungere un obiettivo, la tattica, invece, descrive le azioni specifiche che bisogna compiere lungo un percorso. Secondo Michel de Certeau, mentre la strategia crea il suo spazio autonomo, una tattica è un’azione volontaria determinata dall’assenza di un luogo proprio.Lo spazio della tattica è “lo spazio dell’altro”: le tattiche sono azioni isolate che si avvantaggiano delle opportunità offerte dall’avversario.
[3] È noto che con lo scoppio della guerra la Federazione Internazionale di Judo ha sospeso lo status di Vladimir Putin da presidente onorario e ambasciatore di questa disciplina sportiva.

[4]https://www.ladige.it/attualita/2015/04/30/putin-racconta-il-dramma-della-sua-famiglia-nell-assedio-di-leningrado-1.2757466
[5] https://ilmanifesto.it/il-risveglio-dellorso-sul-baratro-di-una-guerra-daggressione/