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Società

Viva Palermo e Santa Rosalia di Salvatore Sutera

Quante volte questo grido è risuonato nella mia città. Un grido misto di fede e rabbia, devozione e fanatismo, amore e disperazione.

Con questo grido si innalzano al Cielo le più sublimi preghiere o si scagliano le più atroci bestemmie da parte di un popolo da sempre più ricco di orgoglio che di beni materiali, pronto a subire l’invasore di turno ma altrettanto pronto a risollevare la schiena ritrovando, anche per un solo istante, unità e dignità.

Viva Palermo e santa Rosalia fu il grido che si levò forte e liberatorio al dileguarsi della peste del 1624; viva Palermo e santa Rosalia, il grido di rabbia, commozione e speranza che, forse senza farsi parola, scaturì dal cuore dei palermitani onesti all’indomani delle stragi contro Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino e di tutti quei martiri dei nostri giorni, palermitani e no, che pagarono con la propria vita la scelta di operare per la legalità di Palermo, “a Palermo”.

Santa Rosalia, per quel cittadino che da sempre è vissuto di raccomandazioni, è la persona “giusta” per ottenere una grazia; è un’amica, e ad un’amica si possono confidare problemi, dubbi, angosce, necessità, sapendo che saprà fare il “suo dovere”con Chi di competenza. E a giudicare dalla moltitudine di persone che il 4 settembre, onomastico della Santa, e il 15 luglio, giorno della solenne processione in onore della Santuzza, fanno l’acchianata al santuario di Monte Pellegrino, o seguono l’urna d’argento contenente le reliquie in processione a piedi scalzi, Santa Rosalia sa sempre quello che deve fare.

 I giorni che precedono questa grande festa popolare, “La” festa per eccellenza del palermitano, sono un’ubriacatura di colori, sapori e odori che stordiscono gli algidi turisti e rinvigoriscono i cittadini abituati da sempre a convivere con queste sensazioni forti e antiche.

Tutto è eccessivo. I chioschetti dislocati lungo il Foro Italico, ad esempio, sono delle costruzioni davanti alle quali un architetto storcerebbe il naso, antiche e futuriste allo stesso tempo; le bancarelle dei venditori di calia e semenza poi, superano tutte le altre sfidando le leggi dell’equilibrio, slanciandosi verso il cielo in modo superbo, con ripiani che contengono, disposti in forme piramidali – chiaro richiamo allo stile dei suk nordafricani -, pistacchi, noccioline americane, nocciole, lupini, calia e semenza e quant’altro il popolare ma raffinato palato palermitano abbia saputo apprezzare nel corso dei secoli. E le delizie del gusto si completano con quelle dell’olfatto e della vista. Si, perché una bancarella di scaccio(1) è un insieme vitale e artistico unico e irripetibile. Ogni ripiano è infatti decorato da una spalliera in legno sulla quale sono dipinte scene tratte dalle storie dei paladini di Francia, dove i terribili Mori vengono trucidati a centinaia da un solo fendente della mitica Durlindana di Orlando o dove il vile traditore Gano di Magonza, trasformato dal palermitano,per motivi di assonanza, in Cane di Magonza, viene messo a morte dai nobili cavalieri per lo “sgarro” fatto al “picciotto” Orlando. Su tutti, dallo scranno regale, troneggia il

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(1) Frutta secca mista.

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saggio e salomonico Carlo Magno, imperatore di Francia, emblema di tutte le virtù, col suo mantello rosso bordato di ermellino e la fluente barba bianca.

I colori sono vividi, luminosi, senza troppe sfumature, direi implacabili, un po’ come il sole della Sicilia, e sembrano brillare di luce propria anche nell’oscurità della notte.

Il palermitano guarda e gode. Già, perché il tipo, strano è! Probabilmente, conversando in un salotto di pseudo-intellettuali concittadini, denigrerà quest’orgia troppo popolare di colori, i tasci (1) i babbaluci(2), il gelato di campagna, i pupi siciliani etc. etc., ma guai a parlargliene male fuori dalla Sicilia o da parte di qualche forestiero con la puzza sotto il naso: improvvisamente, dimentico di tutto, novello Orlando, difenderà a spada tratta i paladini, il festino, ’a calia e semenza, ’u turrunàru, pure ‘a munnìzza se è il caso, vantando conoscenze etno-antropologiche degne di un Pitrè e di un Cocchiara. Arriverà perfino a difendere l’arte del sucare i babbalucie sputare i semi d’i muluna.

Queste due ultime pietanze sono il must del palermitano per i giorni del Festino, massimamente per la lunga notte del “gioco di fuoco”. Altro che polenta e osei, altro che “birra e salsicce”, come diceva Totò, altro che tartufi, cacio con le pere, formaggio di Fossa o lardo di Colonnata: il palermitano è capace di rifiutare, senza pensarci troppo, un piatto di costosissime ostriche o titolati gamberoni reali per uno di poveri e plebei, ma conditissimi, babbaluci. Si, perché in fondo, a pensarci bene, ’u babbaluci, altro non è che una piccola lumaca, un vermiciattolo piuttosto viscido ed insignificante però…dietro quel “però” si nasconde e si sviluppa tutta un’inventiva culinaria in grado di rivaleggiare con quella del più ricercato Monsù.

Due sono le grandi scuole di pensiero attorno alla preparazione di questo piatto: quella bianca e quella rossa. No, non parlo di colori politici bensì del tipo di condimento usato, della conza, vah! La scuola “bianca” prevede che i babbaluci siano conditi con abbondante aglio, olio, pepe e prezzemolo; quella “rossa” con pomodoro a pic-pac, aglio e olio. Per non far torto a nessuna delle due correnti, il palermitano ne mangia di entrambi i tipi.

 Ancora oggi, in un’epoca di pasti preconfezionati e precotti, durante il Festino si vedono venditori ambulanti di babbaluci che presentano le loro creazioni, cucinate a vista, su piattini bassi e bianchissimi, apparentemente almeno, perché sulla loro effettiva igiene non sarei disposto a giurarci.Il tutto va accompagnato da vino, birra o, più prosaicamente, quasi una bestemmia alimentare, da Coca Cola o aranciata.

Lungo il Foro Italico si vedono intere famiglie, veri e propri clan, radunate attorno ad un tavolo di legno pieghevole, mangiare o meglio “sucare” i babbaluci a mano libera- pardon, bocca libera -, oppure con l’aiuto di uno stecchino in attesa d’u jocu ’i focu. Piccoli quadretti vagamente boteriani dove spicca il papà, il nonno con canottiera rigorosamente bianca e panza straripante sopra i pantaloncini corti

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(1) Persona volgare, di basso ceto e di gusti poco raffinati.  (2) Lumache. 

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arrivitticati(1), la nonna con vestito-sottana variopinto senza maniche e vocianti picciriddri di tutte le età.

   Altro elemento portante di questo festino alimentare è, come dicevo, ’u muluni o, meglio, ‘u muluni russu per distinguerlo da quello cosiddetto bianco o da quello color salmone.

Anche la putìa, o bottega d’u mulunaru, è qualcosa di artistico. Innanzitutto, il verde intenso e variegato delle angurie nelle forme più diverse che madre natura abbia potuto creare: rotonde, allungate o schiacciate ai “poli”, lunghe come proiettili da mortaio o perfettamente sferiche come un pallone di calcio regolamentare e fornite di venature giallastre, verdi chiare o scure o, addirittura, bianche. Queste caratteristiche attirano l’occhio dell’acquirente che se ne intende e che si dirigerà a colpo sicuro verso la preda designata. La baracca vera e propria, poi, è una sorta di carretto siciliano senza ruote. I venditori che vantano una lunga tradizione, infatti, hanno la bottega decorata da pannelli dipinti da veri e propri artisti della pittura di carretti siciliani dei primi del Novecento. Per l’appassionato non sarà difficile riconoscere la mano di un Manfrè, Picciurro, Ducato o Scirè, tanto per citarne qualcuno. E scusate se è poco!

Se sapete come scegliere un’anguria, bene, altrimenti siete nelle mani d’u mulunaru del quale non è mai consigliabile fidarsi. Decanterà le qualità dei suoi meloni – o melllloni,nella pronuncia palermitana -, con aggettivi sempre usati al superlativo – il superlativo palermitano, intendo -, come “troppu sucusi”, “troppu duci”, “troppo bellissimi” e che se “ ‘un sunnu duci comu ‘u zuccaru”, glieli potete tranquillamente riportare. Cose che si dicono, naturalmente.

 C’è poi l’operazione “palpeggio”, praticata dal cliente intenditore o dal mulunaru stesso:consiste nel battere con la mano leggermente a coppo sul frutto producendo un rumore che, ben interpretato, permetterà di leggerne le qualità. 

“  ‘Assà (2) si pigghiachistu e poi m’u sapi a diri” sentenzia alla fine il venditore. Vi ha già fregato!

Comunque, trattare c’u mulunaru, anche se ciò comporta possibili bidoni, rappresenta, in un’epoca di asettici ipermercati dove il rapporto umano è del tutto inesistente, un modo di comprare dal sapore ancora antico.

   Con l’anguria, come recita un detto popolare, “si mangia, si beve e ci si lava la faccia”. Mai sentenza fu più veritiera e ve ne rendete conto quando, lungo il Foro Italico, osservate adulti e bambini con la faccia bagnata del gocciolante liquido granuloso che si appiccica alle mani e tinge la bocca di un inquietante colore rosso sangue come in un film dell’orrore. 

 C’è poi il rito della sputata dei semini; dove capita, capita e a cu’pigghia, pigghia! Da qui, soprattutto nel passato, le migliori sciarrecon occasionale uscita di liccasapuni(3) fuori ordinanza.

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  (1) Arrotolati, rimboccati. (2) Forma contratta di “Vossia” a sua volta derivato da “Vostra signoria”, usato come termine di rispetto verso chi è maggiore per età o titolo. (3) Coltello da tasca multiuso.

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Ad un tratto, improvviso ma atteso, un gran botto proveniente dal lungomare mette fine ad ogni litigio e ad ogni idillio segnando l’inizio dei fuochi pirotecnici, per il palermitano, ‘u jocudi focu.

Subito tutti gli sguardi si indirizzano là dove i primi fuochi, quelli bassi e meno spettacolari, cominciano a disegnare nell’oscurità della notte una ragnatela di coloratissimi cerchi concentrici, ellissi rosse, verdi o gialle, fontane luminose che illuminano il mare e il corso, fiori dagli eleganti gambi che spruzzano il cielo dei loro variopinti petali. La gente ondeggia, indica, si tappa le orecchie, sta con gli occhi incantati ad ammirare quelle effimere meraviglie la cui vita dura solo qualche secondo. Poi le figure luminose diventano sempre più complesse, barocche e svettanti; bisogna allora inarcare la schiena e storcere il collo all’indietro per seguire le composizioni che salgono sempre più su nel cielo nero e svaniscono in un attimo lasciando variopinte scie luminose. Qualche bambino ha paura dei botti e piange attaccato al collo della madre che cerca di rincuorarlo; la stanchezza della lunga attesa si fa sentire, le gambe e i piedi sono doloranti ma nessuno lascia il proprio posto faticosamente conquistato diverse ore prima.

Il tempo passa e le evanescenti pitture luminose continuano a colorare il cielo scuro e profondo dove le stelle riescono a far capolino soltanto nei brevi intermezzi di buio. Ad un tratto comincia la tanto attesa masculiata(1), temutissimo banco di prova per ogni fuochista che si rispetti, un po’ come per il tenore l’acuto finale di una romanza. Alla fine della masculiata un applauso lungo e scrosciante sottolinea il gradimento o meno da parte del pubblico. Qualche istante ancora e poi un unico, secco colpo, indica il punto, cioè la conclusione dei fuochi d’artificio.

Molte volte, in occasione del Festino, ho assistito a questo spettacolo ma sinceramente mi hanno sempre dato fastidio i violenti spostamenti d’aria causati dagli scoppi che ti senti esplodere nel petto e nelle orecchie. Quando ad una mia zia si proponeva di andare a vedere i fuochi al Foro Italico, lei decisamente declinava l’invito: “Di quannu ci fu ‘a guerra, ’un nni pozzu vidiri cchiù jochi ‘i focu picchì m’arricòrdanu ‘i bummi ca l’americani jittàvanu supra a Palermo”.

Indubbiamente certe esperienze segnano per tutta la vita.

 A me piaceva andare al Foro Italico, da ragazzo, non tanto per i fuochi, come ho detto, ma perché mi interessava osservare le facce e i tipi, e vi assicuro che in queste occasioni il campionario umano è sempre stato vastissimo. Trovate infatti la persona amante delle tradizioni popolari e culturalmente preparata, il turista spaesato e meravigliato che, tornato in patria, racconterà di questa magnifica esperienza, il borseggiatore che approfitta della confusione e della distrazione per rimediare la giornata, il prete e i ragazzi della parrocchia, i giovani e i vecchi, tutta un’umanità

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(1) Mai definizione fu più azzeccata. Il palermitano d’altri tempi, infatti, nel suo ammiccante riserbo nei confronti della sessualità, accomunava la serie di botti sempre più rapidi e incalzanti, all’orgasmo maschile, da qui il concetto velatamente espresso.

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catalizzata e tenuta insieme, solo per quei giorni, dalla democratica festività sacra e profana della Santuzza.

 Alla fine dei giochi pirotecnici, una fiumana di persone si riversava per via Lincoln ed io, che assieme a mio fratello e qualche amico, sull’ultimo botto della masculiata avevo per tempo lasciato quella bolgia dantesca, mi trovavo già affacciato al balcone della casa dei miei nonni, in Corso Tukory 32, sotto al quale sfilava un serpentone di persone stanche ma appagate.

Molti genitori portavano in braccio i bambini che dormivano abbandonati, con ancora attaccati al polso il filo del palloncino acquistato da un venditore ambulante e i cui movimenti assecondavano il dondolante e stanco passo del genitore; alcuni pittoreschi “esemplari” in canottiera, pantaloncini e pancia “fuori ordinanza” sfilavano trascinando sedie pieghevoli ancora calde del posteriore di chi le aveva occupate per lunghe ore, avanzando faticosamente tra la calca. Passavano anche i reparti “motorizzati”, cioè quei picciuttunàzzi, come li definiva mia nonna, che, sulle Vespe o i Ciao, eseguivano pericolose gimcane tra le persone incolonnate, e per questo venivano accompagnati da coloriti epiteti riguardanti, in modo inequivocabile, il passato delle madri, il presente delle sorelle e le incerte origini del padre.

   Arrancando e tossendo, sfilavano pure i “lapini”, tipici motofurgoni a tre ruote, carichi all’inverosimile di persone più o meno allitrate(1) che ciondolavano ad ogni scossone dell’instabile mezzo.

Tutta questa colorita umanità, confusa e accomunata dall’amore per Santa Rosalia e per i fuochi d’artificio, sfilava davanti ai miei occhi.  Domani sarebbe stato un altro giorno ma il ricordo della festa sarebbe rimasto vivo e incancellabile nei cuori di tutti fino al prossimo Festino.

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(1) Ubriache o per lo meno brille.