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Umberto Eco, la Sicilia e la vertigine del complotto

Nel sessantesimo anniversario della costituzione del Gruppo ’63 a Palermo, una carrellata sul tema del complotto presente nei romanzi di Umberto Eco.

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«Non v’era una trama

– disse Guglielmo –

ed io l’ho scoperta per caso»

       da Il Nome della Rosa, Bompiani, Milano 1980,  pag. 494

 

Nell’ infinito oceano della produzione saggistica e letteraria di Umberto Eco, troppo presto scomparso,   il tema del complotto è forse il più ricorrente e, a tratti, il più ossessivo.

Affrontati nel modo colto ed ironico che gli era proprio, il mondo della cospirazione e del mistero, l’universo della simulazione, la vertigine del sospetto  hanno rappresentato la cifra di colui che, già in vita, è stato considerato il più grande intellettuale del nostro tempo.

Eco fu tra  i fondatori,  insieme  ad Alberto Arbasino, Furio Colombo, Edoardo Sanguineti, Miche Perriera, Oreste del Buono  e Angelo Guglielmi ed altri,  del Gruppo ’63 costituitosi  proprio a Palermo con l’intento di proporre e tentare un rinnovamento nel panorama chiuso e provinciale  della letteratura italiana.

La Sicilia dei misteri e dei complotti intessuti di codici e di significati accessibili a pochi non poteva non colpire la fervida immaginazione del narratore e la puntigliosa attenzione del semiologo.

Nel 1971 curò la prefazione all’edizione de I Beati Paoli di Luigi Natoli edita da Salvatore Fausto Flaccovio, un testo che in molte case palermitane prese il posto dell’ormai vetusta quanto amorevole raccolta dei fascicoli pubblicati dal Giornale di Sicilia in 239 puntate dal 6 maggio 1909 al 2 gennaio  1910.

“Il filone che abbiamo deciso di chiamare «romanzo popolare» nasce e si afferma in Francia dopo che

Emile de Girardin fonda nel 1833 Le musée des familles. Certo si potrebbe parlare di romanzo popolare per il più antico filone narrativo anglosassone,  che dalla  Clarissa di   Richardson  e  dai romanzi   di Fielding o  di  Defoe, passando   attraverso   i   capolavori   della   gothic   novel,   arriva   sino   a   Dickens.   Si   tratta   in   effetti dell’apparizione di una narrativa per la borghesia, influenzata dal fatto che anche le donne cominciano a diventare acquirenti di merce romanzesca.

Ma, a caratterizzare il romanzo popolare francese dell’epoca di cui si parla, stanno vari fattori concomitanti: la   stampa  popolare  promossa da  Girardin raggiunge anche le  classi  più umili della popolazione e si sa che durante l’uscita a puntate de I misteri di Parigi anche gli analfabeti si riunivano in portineria per farsi leggere la vicenda. È la nascita di un nuovo pubblico, al quale la narrativa popolare parla ma di cui anche parla. Le plebi, le classi subalterne incominciano a diventare l’oggetto del racconto.

Si pensi, oltre che a I misteri di Parigi a L’Ebreo errante, a I Miserabili, per arrivare sino ai personaggi e all’universo proletario torinese che appare nelle pagine di Carolina Invernizio. Il romanzo popolare francese non parla solo del popolo per poter vendere al popolo: di fatto subisce l’impatto di una situazione politica e sociale generale, è contemporaneo della nascita dei movimenti socialisti ed è scritto da narratori che in un modo o nell’altro si sentono coinvolti in una battaglia democratica . In Sicilia, I Beati Paoli è ancor oggi l’unico libro che molta gente del popolo abbia letto nel corso della sua vita.”

E, in effetti, ancora oggi I Beati Paoli  sono nella memoria, in molti casi come unica esperienza di lettura, degli anziani dei ceti più popolari. Nel poderoso saggio introduttivo dove il  “romanzo popolare” rivalutato senza mezzi termini come genere letterario, Eco descrisse una Sicilia dalle profonde contraddizioni da cui emergeva un disperato bisogno di equità sociale che non trovava nei poteri costituiti alcuna risposta e generava così l’universo parallelo di giustizieri variamente denominati nel tempo e, per certi aspetti, antesignani della mafia e della relativa simbologia che sollecitava, prima dello lo scrittore che sarebbe diventato,  il semiologo affermato che già era da anni.

Da una parte vi sono coloro che soffrono, subendo sia l’azione criminale dei prevaricatori che l’azione correttrice dei benefattori, passivamente: sono gli innocenti, protetti e vittime al tempo stesso. Essi non hanno possibilità di partecipazione attiva, sono popolo laborioso, ragazze sedotte, plebe che non può che attendere e sperare. In fin dei conti la lotta, anche se può perderli o salvarli, non li riguarda, e passa sopra le loro teste. É una questione che riguarda gli eroi e i protagonisti. Quando qualcuno emerge da questa massa per tentare di diventare un protagonista, ponendosi al servizio dei protagonisti veri, alla fine viene distrutto, sia che tenti l’avventura del crimine sia che provi ad allearsi  con l’eroe (tipico l’esempio del Chourineur ne  I misteri di Parigi; ma si vedano  ne I Beati Paoli gli adepti minori della setta che finiscono sulla forca, mentre Coriolano possiede una sorta d’immunità che è diritto di classe ma anche di esigenza mitica, poiché appartiene alla coorte dei superuomini).

Contro agli oppressi e agli innocenti sta il gruppo dei dominatori, cattivi o buoni che siano. Talora il dominatore può provenire dalle classi più miserabili (come il Rocambole dei primi romanzi) ma, baciato in fronte dal destino romanzesco, di fatto egli entra a far parte della classe egemone, sia pure sotto mentite spoglie e da quel momento non ne esce più.”

Cos’è stato il fenomeno planetario de Il Nome della Rosa se non il trionfo alla fine del XX secolo del romanzo popolare fruibile da ogni categoria di lettori,  secondo i codici del livello culturale posseduto? ?

A contorno della trama del romanzo di Natoli, Eco  ci ha lasciato una descrizione della Palermo sotterranea che, pur tributaria dei diari del marchese di Villabianca e degli scritti del sacerdote storico  Vincenzo Di Giovanni,  sembra anticipare le atmosfere che saranno descritte molti anni dopo  nell’ abazia de Il Nome della Rosa, nella Parigi esoterica de Il pendolo di Foucalt, nei sotterranei di Costantinopoli in Baudolino.

“Nelle grotte e nei cunicoli della Palermo sotterranea del Trans-Papireto e del Trans-Kemonia sono ambientate le tenebrose gesta della setta dei Beati Paoli. Ma la fantasia popolare – per un naturale fenomeno di estrapolazione – ritenne e ritiene ancora che ogni cavità esistente nel sottosuolo della città o del suo vicino territorio sia stata utilizzata dai componenti della società segreta. Sono sorte così le più impensabili leggende sull’esistenza di lunghi camminamenti sotterranei che consentivano di raggiungere anche le più lontane contrade di campagna; leggende che trovano un giustificabile sostegno nella presenza nella zona nordovest del territorio palermitano di vastissime cave di pietra coltivate in galleria che rendono in buona parte vuoto ed anche percorribile il sottosuolo”.

Ma, è ne Il Cimitero di Praga che Umberto Eco riserva alla Sicilia una particolare attenzione, rivelando, pur attraverso l’artifizio letterario, le vere ragioni che portarono all’esplosione in mare e all’ affondamento del piroscafo Ercole su cui viaggiavano il giovane e già noto scrittore Ippolito Nievo, vice intendente di Garibaldi in Sicilia e soprattutto i riservatissimi rendiconti economici che avrebbero spiegato molti aspetti della fulminea conquista di un intero regno da parte di mille scompagnati, seppur gloriosi,  guerriglieri in camicia rossa.

Vi si narra il presunto complotto posto in essere da Cavour perché la cruda ma immaginabile versione dei fatti relativi alla Spedizione dei Mille non venisse mai scoperta e l’intera impresa potesse rifulgere solo della gloria che la retorica ci ha tramandato. Insomma, il primo attentatuni della Sicilia pre-unitaria in cui confluivano poteri occulti, massoneria e “servizi deviati” al soldo dell’impero britannico e tanta di quella che oggi chiameremmo strategia della disinformazione.

E’ immenso e inestinguibile il debito che abbiamo nei confronti di Umberto Eco ed ancora oggi è difficile distinguere  di aver appreso più dai suoi saggi che dalle sue storie.

Alzo lo sguardo e individuo i diversi ripiani delle librerie lungo le pareti su cui sono ben separate le opere scientifiche da quelle narrative: sono decine e decine e la sola lista dà le vertigini.  Ne riconosco al tatto i dorsi e percepisco il profumo antico o recente delle pagine. Ne leggo le date di ex libris. Scandiscono quasi mezzo secolo anni di vita e di letture.  Decido di non separare più i testi, anzi di mescolarli, avendo compreso che gli uni sono le origini degli altri e viceversa.

Di quei libri uno tra tutti mi è più caro.

Si intitola Come si fa una tesi di laurea, edito da Bompiani, Milano nel 1977. Un’ agile guida dalla copertina verde  che aiutò molti di noi, studenti siciliani dell’università di massa, alle prese con cattedratici irraggiungibili ed assistenti supponenti a produrre per la prima volta nella vita uno scritto compiuto e argomentato. Di quelle pagine rimangono ancora nella memoria le parole con cui Eco volle concludere:

“Fare una tesi significa divertirsi e la tesi è come un maiale non se ne butta via niente……Vi potrà accadere di tornare alla vostra tesi anche decine di anni dopo. Anche perché sarà stata come il primo amore e vi riuscirà difficile dimenticarla. In fondo sarà stata la prima volta in cui avrete fatto un lavoro scientifico serio e rigoroso e non è esperienza da poco.”

In occasione del conferimento nel giugno del 2011 dell’ ennesima laurea honoris causa da parte dell’Università di Bologna in cui conseguì la prima, in filosofia, nel 1954,  Eco  lanciò una  provocazione riprendendo i temi del complotto e del complottismo  trattati nell’ ultimo libro pubblicato in vita Numero Zero edito da Bompiani, Milano nel febbraio del 2015:

“I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”.  

E’ un’affermazione pesante e  che fa riflettere, specie quando è proferita da chi più di ogni altro intellettuale nel nostro Paese ha contribuito alla diffusione della cultura ad ogni livello e con ogni mezzo, ponendosi in più occasioni contro la casta di cui comunque faceva parte.

Tuttavia mi sembra un consiglio paterno da non sottovalutare e una lezione magistrale di cui fare tesoro in tempi turbolenti in cui verità e dissimulazione sembrano intrecciarsi in una trama che ancora ci sfugge.