Meridione senza progetto. La storia infinita delle inutili emergenze del Sud Italia
Chi volesse curiosare tra le pagine dei principali quotidiani di lunedì 10 agosto – diligentemente raccolte in corposi volumi che pochi ormai amano sfogliare – e si soffermasse sulle continuità delle date, troverebbe una significativa ricorrenza di problemi civici e di denunzie dell’opinione pubblica che nell’arco di quarant’anni sembrano ancora oggi essere le medesime.
Infrastrutture assenti o decotte, traffico, rifiuti, trasporti, degrado e abusivismo sulle coste, impoverimento delle classi medie, scandali nella pubblica amministrazione, qualità dei servizi municipali, sicurezza dei cittadini, messianiche promesse del risanamento dei centri storici, sono ancora oggi questione aperte sempre più gravi e denotano una cronica incapacità di moderna programmazione delle amministrazioni che si sono succedute, finalizzata a invertire la tendenza ed a delineare un nuovo modello di sviluppo delle città.
Eppure nel linguaggio comune ci si ostina a premettere a ciascuno dei problemi citati la parola “emergenza” che invece, notoriamente, fa riferimento a fenomeni improvvisi e imprevedibili per i quali si adottano soluzioni eccezionali come nel caso del Ponte San Giorgio di Genova, cui adesso però molti, nel Sud e non solo, alludono ammiccanti, come ad un alibi per fare piazza pulita di necessarie procedure di tutela e di controlli sugli appalti e le conseguenti realizzazioni di opere pubbliche importanti ma soprattutto portatrici di congruo e facile consenso.
Nelle città siciliane, dove tale concetto di normalità sembra non avere alcun diritto di cittadinanza, non solo tutto è definito emergenza ma, puntando sul fatto che la mente dei cittadini è sovente occupata dalle necessità private, si tiene nascosta quella continuità di emergenza il cui vero nome è assenza di progetto e di cultura dello sviluppo endogeno e, ove si reperiscano risorse esterne disponibile, anche esogeno.
L’emergenza ha grandi vantaggi per le amministrazioni tradizionali: consente di ricorrere a misure straordinarie, di giustificare l’erogazione a pioggia di denaro pubblico, di sferrare attacchi a poteri e a rendite consolidate, spesso sparando nel mucchio, confidando sull’indignazione pubblica come baluardo contro ogni eventuale dissenso.
È pertanto una grande – e ricorrente – occasione per accelerare il mantenimento di promesse elettorali e di fasce di consenso concentrare soprattutto nella popolazione più bisognosa e, comunque certamente più numerosa e appetibile durante le campagne elettorali condotte all’insegna del binomio che promette di coniugare “emergenza e progetto” “sogno e realtà” “presente e futuro”.
Nella successiva azione di governo si finisce poi molto banalmente nel giustificare con le tante urgenze il differimento sempre più lontano del futuro e del progetto. Si genera così anno dopo anno una drammatica e, diciamolo francamente, patetica situazione in cui finisce per prevalere lo scetticismo, tutto siciliano, secondo il quale, in sostanza, tutto rimane immobile in una sorta di eterno presente in cui le generazioni invecchiano, i problemi si aggravano e le emergenze restano protagoniste di intere stagioni amministrative per essere consegnate tali e quali a chi verrà dopo.
Le precedenti considerazioni rendono utile una breve riflessione sulle caratteristiche del vero cambiamento. Per essere tale esso deve connotarsi soprattutto attraverso tre elementi: la discontinuità netta e immediata con il passato; l’eversione dei processi organizzativi tradizionali; la piena consapevolezza dei cittadini che, attraverso segnali visibili ed atti concreti, è impossibile che il passato ritorni, seppure sotto ben orchestrate mentite spoglie.
Il principale nemico del cambiamento è, infatti, la percezione del medesimo come temporaneo, contingente, superficiale e come tale a rischio di breve durata. E nessuno è disposto a investire energie ed entusiasmo su ciò che percepisce come transitorio e revocabile.
Volendo applicare nel concreto l’analisi del cambiamento annunciato e mai di fatto realizzato nel Sud basta citare l’attuale situazione circa i servizi pubblici, la questione della povertà crescente, la sicurezza.
Elementi ormai portati al parossismo dagli effetti economici e sociali della pandemia che dureranno a lungo, ben oltre l’auspicata scoperta di un vaccino contro il covid-19, diventando strutturali.
Sul versante della discontinuità è giunto il momento di superare ogni residuo approccio ideologico e di prendere atto che l’ottenimento di risultati in termini di qualità dei servizi e di economicità degli stessi non può che risiedere nell’affidamento ai privati di trasporti, igiene pubblica, manutenzioni, sulla base di contratti di servizio di durata contenuta e assegnati con procedura di evidenza europea il cui rinnovo sia legato alla misurazione del livello di soddisfazione espresso da un campione scientificamente definito di cittadini di ogni estrazione.
Non si possono continuare a mantenere in vita servizi pubblici solo in funzione dell’occupazione che essi hanno garantito in anni passati e che oggi invece procede tra ricatti alla città e continui viaggi della speranza degli amministratori per partecipare a migliaia di “tavoli” di cui ogni articolazione regionale e statale è ormai affollata, senza esito.
Invito i cortesi lettori a non rifugiare le proprie speranze invocando concetti astratti quali “moralizzazione dei vertici”, riduzione delle indennità degli amministratori”, “controlli più frequenti” che lasciano il tempo che trovano. Le società, come ogni organizzazione, cambiano solo attraverso l’applicazione di modelli organizzativi inediti che, per propria natura, influiscono direttamente anche sulla qualità della componente umana sorretta dal merito e dalla valutazione dei risultati ottenuti.
Nel dna della gestione pubblica dei beni e dei servizi italiani sono da decenni la lievitazione dei costi, le piante organiche sovradimensionate, le nomine di amministratori tra le file dei trombati o tra quelle dei mediocri. Almeno così è in Sicilia e nel Mezzogiorno e a nulla valgono iperbolici confronti con altri paesi europei, in particolare scandinavi, la cui cultura pubblica viene da altre storie, idee e pratiche consolidate di cittadinanza attiva.
La drammatica questione della povertà crescente non può più essere affrontata con le esigue disponibilità di Amministrazioni cittadine che si reggono su una base imponibile in prevalenza formata da privati a reddito fisso e che finisce inevitabilmente per esasperare la fiscalità e dirottare le risorse di tutti, che dovrebbero servire anche per gli investimenti – cioè per il futuro – verso le necessità impellenti e immediate di un’unica, seppur numerosa, fascia sociale. Né provvedimenti populisti e narcotizzanti come il reddito di cittadinanza, peraltro a scadenza ravvicinata, possono essere la risposta a bisogni antichi ed irrisolti.
Il risultato è lo straniamento della rimanente parte dei cittadini, la fuga di menti giovani e brillanti, l’emigrazione disordinata di disoccupati e pensionati mediamente abbienti verso altre zone del Paese o dell’Unione europea.
Anche su tale versante sembra essere giunto il momento di aiutare, specie le più giovani generazioni a rischio di povertà (e mi riferisco a chi è nella fascia anagrafica tra i trenta e i quarant’anni con o senza proprio nucleo familiare) a considerare la possibilità di una mobilità assistita e concordata in sede comunitaria o di protocolli tra grandi città metropolitane europee il cui Pil tornerà a crescere presto rispetto alla Sicilia, per cominciare altrove una nuova vita, degna di tale nome.
Sul piano della sicurezza dei cittadini, un tempo minacciata solo dalla criminalità controllata dalla mafia e oggi composta da “cani sciolti” di ogni età e condizione sociale, va detto che essa è esposta ad ogni genere di rischio che non risparmia neanche i turisti, preziosa risorsa non solo per l’apporto finanziario diretto ma anche e soprattutto in quanto testimonial di una pubblicità negativa al proprio rientro nelle città di provenienza.
Un effetto boomerang che ha conseguenze gravissime non solo sul turismo futuro ma anche sull’opinione pubblica estera e contribuisce, insieme alle inefficienze ben note della burocrazia e della giustizia, ad escludere intenzioni anche latenti di investimenti produttivi nelle nostre zone.
La sicurezza, infine, è il risultato del contenimento del bisogno e della disperazione che conducono a gesti estremi persone di ogni età e condizione, anche per poche decine di euro. È innegabile le istituzioni ad ogni livello abbiano rinunciato al controllo “minuto” del territorio, concentrando giustamente l’attenzione sui tanti racket, ma lasciando scoperto il fianco della sicurezza del passante, dell’anziano, del già ricordato turista, del piccolo e medio imprenditore commerciale, delle abitazioni.
Non si capisce, al riguardo, il cieco affidamento alle telecamere stradali che, sovente, non rappresenta alcun deterrente, l’abbandono della buona pratica durata lo spazio di un mattino del poliziotto di quartiere, la scomparsa della pattuglia pluriforze e la macroscopica marginalità del ruolo che sotto tale aspetto vede assenti azioni proattive e di prevenzione da parte dei corpi di Polizia Municipale.
Questa è una prima e sommaria constatazione di alcune delle tante “emergenze permanenti” delle nostre città il cui complesso ne allontana il destino da ogni prospettiva di sviluppo reale di quanti, per necessità o per scelta, continuano a viverci, all’insegna del noto e disperato sentimento interiore dell’ “io speriamo che me la cavo”.
L’ amara consapevolezza, tutta meridionale, di essere ancora lontani dalla dimensione civile in cui, invece, ci si salva solo se tutti insieme. E ciò, ricordando che la ricchezza, forse, si può fare da soli, lo sviluppo invece è sempre e soltanto il risultato di una corale azione collettiva trasmessa e potenziata tra le generazioni, a partire dalla prima – cosiddetta “della svolta” – che ha avuto il coraggio di rompere definitivamente con il passato, curando di non lasciare varchi attraverso cui esso possa, sotto mentite spoglie, tornare ad imporsi.
Infine una breve considerazione sulla “fiscalità di vantaggio” che appare essere l’ultima trovata per ottenere consenso, come se bastasse versare acqua in un contenitore bucato per riempirlo. Fermo restando che tale provvedimento deve ancora essere vagliato nel dettaglio, superare le resistenze opposte dalle regioni del Centro Nord e trovare il benestare dell’Unione europea sospettosa circa tutto ciò che richiama forme surrogate di aiuti di Stato, va considerato che non una parola è stata spesa finora sulla riconversione dei modelli organizzativi nel pubblico quanto nel privato.
Senza una riconversione organizzativa profonda, un rinnovata cultura aziendale fondata su merito e risultati, una minore incidenza dei meccanismi clientelari, se non quando connessi con la criminalità organizzata, si rischia di replicare la fase peggiore della Cassa per il Mezzogiorno, quella cioè in cui, dopo alcuni anni di grandi realizzazioni pubbliche, si impadronirono “prenditori” del Nord, poi dileguatisi, e ogni sorta di esponenti della criminalità organizzata in connessione con gli elementi corrotti della pubblica amministrazione. Un rubinetto infetto le cui residue pozze nauseabonde sono ancora visibili in Calabria, in Basilicata e in Sicilia sotto forma di cattedrali nel deserto ormai divenute discariche abusive.
Così annotava l’economista Salvatore Butera, già consulente economico di Piersanti Mattarella, nell’articolo Le questioni nazionali, il Mezzogiorno e i 150 anni in “StrumentiRes”, n° 4, Ottobre 2011:
«La Cassa del Mezzogiorno venne identificata dal Paese come l‟immagine stessa dello spreco e del malaffare, eppure gli studi di Saraceno e della Svimez accertarono che il Paese aveva impegnato in quei piani appena mezzo punto percentuale del Pil prodotto in tutti quegli anni. E tuttavia va detto che le politiche pubbliche adottate fin dal 1950 frutto di un nobilissimo dibattito economico non diedero nel tempo i frutti sperati. I vecchi problemi certo sono stati in gran parte risolti ma ad essi se ne sono sostituiti altri non meno gravi e assillanti, dovuti in primo luogo all’avvento delle masse soprattutto nelle realtà cittadine del Sud trasformatesi in megalopoli ingestibili e invivibili, a cominciare proprio da Palermo. Le politiche di sostegno alla domanda applicate clientelarmente hanno finito per generare assistenza, modificando radicalmente le finalità originali volte all’allargamento della base produttiva nei settori extra agricoli e alla creazione di posti di lavoro. Restano come s’è detto i problemi gravi, gravissimi del Mezzogiorno di oggi la cui soluzione non pare a portata di mano. Ma essi non danno vita ad una nuova questione meridionale. Il Paese è troppo avanti per fermarsi ad aspettare, non lo ha fatto negli anni ‘50 e ‘60, e non lo farà oggi. Il Mezzogiorno è solo con le sue tremende contraddizioni in un quadro di economia globalizzata nel quale prevalgono decisamente i valori del mercato, quelli appunto che il Sud sconosce o conosce solo in maniera frammentaria e superficiale. Il cammino quindi sarà lungo, assai più lungo del previsto ed a concluderlo non saranno nemmeno i nostri figli né forse i nostri nipoti».
Oggi, mentre va incoraggiata la buona volontà di un giovane e volenteroso ministro per il Sud e la Coesione Territoriale quale Giuseppe Provenzano nato a San Cataldo (Caltanissetta), rara avis nel serraglio del governo trasformista di Giuseppe Conte e formatosi alla scuola Svimez che ha diretto successivamente sia pure come vicario, qualche testa canuta gli ricordi la storia del mancato sviluppo economico e sociale del Mezzogiorno e la cronaca recente della terrificante stagione del governo Crocetta di cui, con ruolo tecnico, ha fatto parte quale capo della segreteria dell’Assessore Luca Bianchi da dicembre 2012 a marzo 2014.
Alle elezioni politiche del 2018 Provenzano fu scalzato dalla figlia di Cardinale, Daniela, dalla posizione di capolista nel collegio plurinominale di Agrigento-Caltanissetta. E polemicamente rifiutò l’investitura: «Credevo che nel 2018 – protestò all’epoca Provenzano, sui social – al Sud ci si dovesse impegnare ancora per l’abolizione dell’ereditarietà delle cariche pubbliche, principio sancito ormai secoli fa».
E non fece mistero di avercela con la premiata ditta Cardinale, padre e figlia. La quale ha ottenuto il secondo mandato a Montecitorio, prima di rompere col Partito democratico e passare, poche settimane fa, al gruppo misto: «Contro questa ricandidatura, frutto non delle capacità dell’onorevole ma delle pratiche trasformiste del padre – si arrabbiò Provenzano all’epoca – si era espresso, con proteste coraggiose e molto partecipate, il Partito democratico dell’intera mia provincia d’origine. Per me quella terra vuol dire molto, soprattutto una cosa: la dignità».
Non se ne fece nulla. Fra mille polemiche Daniela Cardinale fu eletta, mentre Peppe Provenzano ha saltato un giro, prima di entrare nelle grazie di Nicola Zingaretti.
In un’intervista a Italpress dell’8 agosto ha dichiarato: «Un conto è l’emergenza, un altro la prospettiva. Nei mesi scorsi avevamo il dovere di salvare l’intero tessuto produttivo e sociale, ora nella ripartenza dobbiamo operare con delle scelte. Ridurre i divari, non fare parti uguali tra diseguali, serve a rendere lo sviluppo più equilibrato ed efficiente. Coniugare sviluppo ed equità, anche territoriale, è il nostro compito. E credo anche sia profondamente di sinistra».
Quando il regista Nanni Moretti, nel film “Aprile” del 1998 implorava Massimo D’Alema a dire «qualcosa di sinistra», Provenzano aveva 16 anni ed era già un giovane militante. Mentre nulla è pervenuto ancora dall’autore di “Caos Calmo”, vogliamo augurarci che “il compagno di Milena” come il ministro era affettuosamente indicato nel partito, oltre che a dire le cose, sia anche capace di creare le condizioni per farle accadere. Salvo intese, ovviamente.