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L’ultimo illuminista. Cosa ci dice Leonardo Sciascia dell’Italia sfasciata di oggi

Non è agevole in questi giorni di limitate e guardinghe passeggiate intorno alla propria abitazione, visitare la tomba di Leonardo Sciascia nel centesimo anniversario della nascita.

Pier Paolo Pasolini aveva almeno la possibilità, nei brevi intervalli tra gli impegni della propria vita tormentata, di trascorrere qualche momento di riflessione sul sepolcro di Antonio Gramsci, nel cimitero acattolico che si estende ai piedi della Piramide Cestia la cui storia ho raccontato su queste pagine.

E ai piedi di una piramide che si ha la sensazione di trovarsi allorché si voglia ricordare l’intellettuale più lucido e disincantato che la Sicilia abbia mai avuto (nonostante egli rifiutasse il termine), tentando una faticosa salita dal livello inferiore del conformismo del vivere e del pensare, su su, per ardui gradini, verso gli stadi del pensiero umano, sino alla cuspide della massima razionalità.

Sciascia e Pasolini hanno riscattato la coscienza culturale italiana nella seconda metà del XX secolo. I destini di entrambi sono stati accomunati dal timore e dall’odio che il Potere aveva per essi, manifestando in occasioni, con modi ed esiti diversi, il tentativo di farli tacere.

Il rapporto di stima e di amicizia tra Leonardo Sciascia e Pier Paolo Pasolini risale ai primi anni cinquanta, quando l’uno e l’altro erano parimenti ignoti al grande pubblico. Il poeta friulano recensì sulla rivista romana “La libertà” il primo scarno libello del maestro di Racalmuto, “Le Favole della dittatura” di cui evidenziava la scrittura essenziale, la purezza del linguaggio. Dalla recensione nacque un rapporto epistolare e anche personale che Sciascia ricordò in “Nero su nero” nel 1980.

«… da quel momento siamo stati amici. Ci scrivevamo assiduamente e ogni tanto ci incontravamo, nei dieci anni che seguirono, e specialmente nel periodo in cui lui lavorava all’antologia della poesia dialettale italiana. Poi la nostra corrispondenza si diradò, i nostri incontri divennero rari e casuali (l’ultimo nell’atrio dell’albergo Jolly, qui a Palermo: quando lui era venuto a cercare attori per Le mille e una notte). Ma io mi sentivo sempre un suo amico; e credo che anche lui nei miei riguardi. C’era però come un’ombra tra noi, ed era l’ombra di un malinteso. Credo che mi ritenesse alquanto – come dire? – razzista nei riguardi dell’omosessualità. E forse era vero, e forse è vero: ma non al punto da non stare dalla parte di Gide contro Claudel, dalla parte di Pier Paolo Pasolini contro gli ipocriti i corrotti e i cretini che gliene facevano accusa. E il fatto di non essere mai riuscito a dirglielo mi è ora di pena, di rimorso. Io ero — e lo dico senza vantarmene, dolorosamente – la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, detto le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare. Non posso che mettere il torto dalla mia parte, la ragione dalla sua. E voglio ancora dire una cosa, al di là dell’angoscioso fatto personale: la sua morte – quali che siano i motivi per cui è stato ucciso, quali che siano i sordidi e torbidi particolari che verranno fuori – io la vedo come una tragica testimonianza di verità, di quella verità che egli ha concitatamente dibattuto scrivendo, nell’ultimo numero de “Il Mondo” una lettera a Italo Calvino».

Non occorre concentrare qui le migliaia di pagine che sono state analizzate da più generazioni di commentatori della vita e delle opere dello scrittore, volendosi negare a ogni sorta di celebrazione retorica, più congruo appare il dovere di isolare il contributo che Sciascia ha dato alla cultura europea del cui respiro illuminista trattò con inesausta ammirazione e profonda nostalgia.

Più di ogni altro scrittore siciliano, a eccezione di Luigi Pirandello che partecipava pienamente della cultura tedesca, lo scrittore di Racalmuto ha rappresentato il ponte ideale tra la Sicilia, che preferì negarsi alla Rivoluzione Francese, e l’Europa che aveva saputo trasformarsi seguendo il corso delle idee, riconoscendo ad esse il ruolo di motore del mondo.

Un ponte che, nonostante i frequenti soggiorni all’estero dove era amatissimo molto più che in patria, egli non volle mai varcare, fino alla morte avvenuta tra l’infuriare di indegne polemiche che accelerarono il decorso della malattia, il 20 novembre del 1989.

Lo scrittore più lucido che la Sicilia abbia mai avuto è sepolto nel cimitero della cittadina dell’agrigentino che gli arabi chiamarono Rahal Maut, villaggio morto, avendo trovato la popolazione del borgo quasi del tutto sterminata da una terribile peste chi vi infuriava.

Ed egli scrisse per tutta la vita di peste e del disperato tentativo di debellarla con la luce della ragione, individuandone il bacillo nella sfiducia e nella rassegnazione che, tradizionalmente, i siciliani hanno sempre avuto nei confronti di idee nuove, venute da altrove, forse perché spesso in compagnia di nuovi e più esosi colonizzatori.

Il luogo del suo riposo non è distante dalla casa di campagna in Contrada Noce dove in estate prendevano corpo i romanzi pensati durante l’anno e, insieme a coloro con cui il maestro era cresciuto, si radunavano gli amici più cari: Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo, Ferdinando Scianna e l’editore Salvatore Sciascia la cui libreria di Corso Umberto era rifugio dei lettori colti di Caltanissetta; oggi si trova in una periferia forse più commerciale ma infinitamente priva del fascino di allora.

Al suo posto ha aperto i battenti un’agenzia immobiliare e solo nel ricordo vivono altri luoghi quali la pasticceria Romano, la filiale della Banca d’Italia trasferita dal 2009 ad Agrigento, la sede del Banco di Sicilia edificata nei primi anni del ‘900.

Poco distante, dalla fontana del Tritone che sembra soccombere più che lottare con i mostri marini che lo assediano, sporadici spruzzi si uniscono alle lacrime di un San Sebastiano trafitto e sconsolato per una città che si va progressivamente spopolando di persone e di anime.

Il pensiero di Leonardo Sciascia ha attraversato il secolo e consente di leggere la vita culturale italiana secondo una netta partizione tra prima e dopo la diffusione dei suoi scritti.

Sciascia fu scrittore, giornalista, drammaturgo, poeta, politico, critico d’arte ma soprattutto maestro non solo nell’accezione che da decenni gli riconosciamo, ma soprattutto per la tensione costante di applicare l’antico motto oraziano, poi ripreso da Immanuel Kant, diventato il manifesto dell’Illuminismo: «Sapere aude», Abbi il coraggio di conoscere, di cercare il sapere, osa indagare la verità e smascherare la superstizione e la menzogna poiché altrimenti non vi saranno mai giustizia, progresso, speranza, libertà.

Più di ogni altro scrittore italiano, Sciascia ha osato. Con ostinazione e razionalità, con pervicacia e metodo ha demolito molti muri, arrivando appena in tempo per vedere crollare il più simbolico di tutti.

E si commette un grave errore quando lo si riduce al ruolo di primo intellettuale siciliano che abbia affrontato i temi della mafia, della corruzione, dell’omertà. Molto più in là della Sicilia guardavano i suoi occhi, lontano nella nebbia del vaticinio e della profezia che hanno per contrappasso la pena della sottovalutazione e del non essere creduti.

«Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia…e sale come l’ago di mercurio di un termometro questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia ed è già oltre Roma», così scriveva ne “Il Giorno della Civetta” pubblicato nel 1961 e la cui riduzione cinematografica per la regia di Damiano Damiani nel 1968, lo avrebbe rivelato al grande pubblico cinematografico.

Nel 1950 Sciascia aveva scritto “Le Favole del Regime”, che fu notato e recensito da Pasolini, dando inizio all’amicizia che ho ricordato in apertura; tre anni dopo avrebbe vinto il Premio Pirandello promosso dalla Regione Siciliana e l’anno successivo Italo Calvino così ne riferiva in una lettera ad Alberto Carocci, il fondatore della rivista Solaria: «Ti accludo uno scritto d’un maestro elementare di Racalmuto che mi sembra molto impressionante».

Nel 1956 la pubblicazione di “Le Parrocchie di Regalpetra” per Laterza avrebbe rivelato Sciascia ai lettori italiani. Profezia del ruolo residuale che la scuola ha laddove il contesto ne azzera il potenziale di cambiamento di persone e società. Un tema molto attuale.

A differenza di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, la cui opera fu pubblicata postuma per l’errore fatale di Elio Vittorini e dell’ultrasessantenne Gesualdo Bufalino, incoraggiato proprio da Sciascia e da Elvira Sellerio, nel 1956 lo scrittore di Racalmuto aveva trentacinque anni e quasi altrettanti davanti a sé per percorrere i molti generi letterari in cui ha sviluppato romanzi, saggi, interviste, sceneggiature, tutti animati dalla medesima ansia di proteggere l’animo umano dall’arroganza spesso ignorante del Potere nelle molteplici modalità e nei contesti più svariati in cui esso si manifesta.

Nulla è sfuggito allo spirito indagatore che lo animava, spingendolo a non fare sconti alla chiesa, allo stato, ai partiti, all’asfittica società siciliana, all’Italia ancora in bilico tra tentazioni autoritarie e velleità ideologiche, assistendo al tramonto di grandi personalità in ogni campo e all’ascesa dei nani che progressivamente ne prendevano il posto.

Lo scrittore che tanto amava la giustizia, non esitò a colpirne le degenerazioni là dove esse si manifestavano come potere ed arrivismo, e potente fu l’invettiva scagliata contro i «professionisti dell’antimafia» pubblicata sul Corriere della Sera del 10 gennaio 1987, che scosse il Paese e che va riletta in originale a motivo delle tante e meschine reazioni che seguirono spesso ad opera di chi ne lesse soltanto il titolo.

Trent’anni dopo, sul medesimo quotidiano Felice Cavallaro avrebbe analizzato i veleni che in quegli anni sgorgarono copiosamente, lambendo tutte le istituzioni e tentando di incatenare Sciascia a quella colonna infame della quale egli stesso aveva scritto anni prima nella prefazione all’omonimo testo manzoniano, ripubblicato da Sellerio nel 1982.

Come attestato da Emanuele Macaluso nel libro “Sciascia e i comunisti”, edito da Feltrinelli nel 2010, Leonardo Sciascia non fu mai iscritto al Partito Comunista né al Partito Radicale anche se nelle liste del primo su insistenza di Achille Occhetto, allora segretario regionale, fu eletto, da indipendente, al Consiglio Comunale di Palermo insieme a Renato Guttuso.

Vi resistette stoicamente dall’inizio del 1975 alla metà del 1977 quando si dimise dinanzi alla prospettiva del compromesso storico con la Democrazia Cristiana – rappresentata in Sicilia dall’andreottiano Salvo Lima della cui esecuzione il destino gli impedì di scrivere – la cui idea, in aspra polemica con Enrico Berlinguer, non accettò mai. La storia degli anni successivi gli avrebbe dato ragione.

Dal 1979 al 1983 Sciascia fu deputato tra i Radicali avendone sposato la causa in nome di quelle battaglie di libertà di cui il Paese sarà sempre debitore al partito che fu di Marco Pannella. Eletto ancora una volta come indipendente sia a Strasburgo che a Montecitorio, dopo pochi mesi optò per la Camera dove seguì i lavori della Commissione antimafia relativi al terrorismo, alla strage di via Fani e al caso Moro, di cui scrisse nel 1978 con il medesimo stile da detective con cui si era occupato del misterioso suicidio di Raymond Roussel avvenuto nel 1933 all’Hotel delle Palme di Palermo e di cui ho scritto.

Al suo spirito indagatore si deve la definizione di «criminalità servente», volta a far chiarezza sul ruolo meramente esecutivo svolto da Cosa Nostra in obbedienza agli interessi di poteri di altissimo rango che Giovanni Falcone gratificava di un amarissimo «menti raffinatissime» e di cui sarebbe anch’egli stato vittima insieme a Piersanti Mattarella, Gaetano Costa, Pio La Torre, Cesare Terranova Carlo Alberto Dalla Chiesa, Paolo Borsellino, Rocco Chinnici e tutto ciò anni prima che quest’ultimo avesse l’intuizione di dar vita al Pool Antimafia.

Memorabile fu il sostegno di Sciascia alla causa di Enzo Tortora, vittima sacrificale di quella Giustizia fondata sui pentiti su cui tanto avrebbe potuto scrivere, se avesse vissuto quegli anni e assistito a teoremi che oggi sono posti fortemente in discussione, lasciandosi dietro la distruzione di un’intera classe dirigente, figlia minore della migliore stagione autonomistica, oggi rimpiazzata da un coacervo di limitate intelligenze che «dell’identità siciliana» se pure essa esista, stanno facendo strame, avendola consegnata nelle mani di un assessore in quota Lega di Salvini e con antiche simpatie celtiche di cui ho scritto. “Nero su nero” avrebbe ricordato il maestro, scuotendo la testa.

Conservo di Leonardo Sciascia memoria lucida e precisa. Gli fui presentato a Caltanissetta nel 1980 nella libreria del cugino Salvatore già menzionato ed ebbi modo di andarlo trovare in due occasioni nella casa di Contrada Noce e nell’appartamento palermitano affacciato su Villa Sperlinga.

Avevo letto tutti suoi libri, seguito il percorso intellettuale e politico e le travagliate vicende della Sicilia che mi indussero nel 1988 a lasciarla, immaginavo, per sempre.

Sciascia ebbe un ruolo determinante nella mia, per così dire, educazione sentimentale, strappandomi a molte delle ingenuità che egli aveva descritto nel suo “Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia” pubblicato nel 1977 da Einaudi.

La notizia della sua morte mi raggiunse in Veneto durante la lettura del suo penultimo libro, “Il Cavaliere e la morte”. Il giorno successivo corsi ad acquistare “Una storia semplice” uscito proprio il 20 novembre del 1989 e che può essere considerato il suo testamento intellettuale.

Insieme ad altri tormenti interiori che raggiunsero il culmine dopo la strage di Capaci, la lettura di quell’ultimo libro ed il vuoto che restava, furono tra le motivazioni che mi convinsero a tornare a Palermo per fare la mia parte con gli strumenti che possedevo. Erano i giorni dei lenzuoli esposti ai balconi della Città e tante erano le opportunità di impegno educativo e sociale ma, lasciando Treviso, non avrei mai immaginato di sedere per due volte nell’arco dei successivi vent’anni a Palazzo delle Aquile, con il privilegio di occupare il seggio a Sala delle Lapidi che era stato di Leonardo Sciascia; come lui mi trovai in più occasioni a rivivere i medesimi disagi e lo stesso sentimento dell’inutilità di quel ruolo, traendo conforto solo quando alzavo lo sguardo verso l’epigrafe marmorea che ancora oggi lo ricorda: «a futura memoria, se la memoria ha un futuro», come è intitolato il libro pubblicato da Bompiani nel 1989 che raccoglie molti suoi interventi giornalistici su Il Globo, L’Espresso e il Corriere della Sera. L’incipit così recita: «Questo libro racconta ciò che negli ultimi dieci anni ho scritto su certi delitti, certa amministrazione della Giustizia e sulla mafia. Spero venga letto con serenità».

Quanto ci manca oggi Sciascia? Quali editoriali avremmo letto sui principali quotidiani ad opera di chi aveva indicato la Sicilia come metafora del mondo che si stava preparando? Quali nuovi e fecondi dubbi avrebbe seminato nella profonda ignoranza che oggi avvolge il Paese?

Come avrebbe reagito dinanzi al crollo fragoroso dell’impalcatura dell’antimafia di facciata su cui molti si erano arrampicati, facendo sì che le sue parole fossero confermate dalla manifestazione di un irreversibile destino di irredimibilità? Quanto avrebbe potuto comunicare personalmente agli studenti delle nuove generazioni a cui sempre un minor numero di docenti propone stancamente le sue opere?

Io credo che sarebbe stato la spina del fianco di cui oggi si avverte la mancanza lacerante in una regione che scivola sempre più rapidamente verso la più cupa arretratezza sociale, culturale e politica, mentre i giovani migliori la lasciano, con pochi anche se teneri rimpianti.

Quante volte avrebbe subìto quell’isolamento di cui ha scritto Rosario Castelli nel libro pubblicato nel 2016 “Contraddisse e si contraddisse. Le solitudini di Leonardo Sciascia” ricordando come tale epitaffio fosse stato voluto in un primo momento dallo scrittore?

Alla fine, decise che sulla propria tomba fosse scritto «Ce ne ricorderemo di questo pianeta» la frase dello scrittore simbolista precursore della fantascienza, August de Villiers de l’Isle-Adam, morto esattamente cento anni prima di lui: l’ultimo omaggio alla cultura francese che tanto aveva amato o una nuova criptica profezia sui nuovi travestimenti del potere, camuffato dalle finzioni del progresso?

Non lo sapremo sino a quando, ancora una volta, dovremo dargli ragione. Intanto, come in un kaddish consolatorio più per i vivi che per i morti, possiamo solo ricordare l’ammonizione con cui egli intese superare con spirito illuminato le tante contraddizioni di cui per tutta la vita andò fiero:

«Noi siamo quel che facciamo. Le intenzioni, specialmente se buone, e i rimorsi, specialmente se giusti, ognuno, dentro di sé, può giocarseli come vuole, fino alla disintegrazione, alla follia. Ma un fatto è un fatto: non ha contraddizioni, non ha ambiguità, non contiene il diverso e il contrario».

Mentre scorrono i titoli che annunciano foschi orizzonti irrazionali nella più grande democrazia del mondo e si affacciano nuovi ed inquietanti attori internazionali nemici della libertà, anche di questo ci ricorderemo, caro maestro, passassero altri cento anni.