Portolano per rotte inedite verso lidi inesplorati – Fondato e diretto da Luigi Sanlorenzo

LetteraturaSocietà

Scrittori su Nuovi Approdi – La vecchia Singer – di Salvatore Sutera

   Un monumento di ferro e legno, un tripudio di cromature, un mobile che non sfigurava accanto a quelli del salotto buono: questa era la Singer, macchina da cucire, simbolo, orgoglio e vanto di molte famiglie dei primi del Novecento, gelosamente custodita in casa dei miei nonni e funzionante almeno sino agli anni Settanta.

   Singer! Il solo nome mi entusiasmava, con quella erre finale, sonora come una schioppettata che faceva vibrare la lingua come la lama di un marranzano tra le labbra.

   La forma, poi! Sinuosa ed elegante, con una protuberanza rotonda simile alla schiena inarcata di un ghepardo in corsa là dove era posizionata la piccola ruota d’acciaio che si azionava con la mano destra per sollevare il pistone e far scorrere la stoffa sotto l’ago che, come per magia, imbastiva, cuciva, ricamava, creava forme dall’informe stoffa.

  E quei colori! Sobri, rassicuranti, discreti come il lavoro di chi adoperava quotidianamente quello strumento per vivere. Nero lucido il corpo, cromatissimo argento per le parti meccaniche, oro per la targhetta ovale alla base della macchina, vicino alla cinghia gommata che si inabissava sotto il ripiano di legno per collegarsi alla grande ruota di metallo che azionava tutto il movimento per mezzo del largo poggiapiedi di metallo traforato.

   La cosa più bella della Singer, però, era la variopinta pittura che impreziosiva il corpo della macchina, conferendole quel quid speciale di eleganza e mistero. Era una sfinge, simile a quelle egiziane; il suo corpo si allungava mollemente, ma dava l’impressione di essere pronto a spiccare un potente balzo dal lato opposto alla scritta Singer in caratteri d’oro.

  In casa Piazza, la zia Gianna era la vera sarta della famiglia, quella che usava la macchina con maggiore continuità ed esperienza, anche se mia madre e sua sorella Anna, di tanto in tanto, l’adoperavano. Da ragazzina, la zia era andata “a sarta”, come si diceva un tempo, e quindi sapeva come cucire e ricamare, eseguire un punto o un altro, rammendare, fare orli, allungare o stringere pantaloni e gonne.

   Ricordo la sequenza delle operazioni che eseguiva per iniziare un lavoro. Si sedeva, provando il pedale a vuoto per vedere se la ruota grande scorresse liberamente, poi abbassava il meccanismo che faceva sollevare l’ago e quindi infilava il filo inclinando la testa verso sinistra. A quel punto la stoffa veniva appoggiata sopra il ripiano di legno e lei cominciava a “pedalare”. Che musica usciva da quella macchina! Era un misto tra il suono prodotto dal movimento dello stantuffo di una locomotiva e il basso continuo di un organo, il vibrare dell’aria nell’otre di una cornamusa e il suono di uno scacciapensieri. Quando poi si aumentava o diminuiva la velocità della pedalata, sonorità nuove e misteriose accarezzavano l’orecchio.

   Di tanto in tanto la Singer aveva bisogno di essere lubrificata, e per questo si usava un piccolo utensile di metallo munito di un sottile beccuccio e un corpo a semisfera che veniva riempito con un olio adatto. Di questa operazione ero incaricato io che eseguivo il compito con grande impegno; presa la boccetta, infatti, mi infilavo tra il pedale e il pianale, e così rannicchiato ungevo ogni parte meccanica, poi oliavo anche gli ingranaggi del corpo della macchina e terminavo la pulizia passando un prodotto specifico su tutte le parti di legno che costituivano il mobile.

   Un giorno, non so per quale problema meccanico, fu chiamato un tecnico che informò mia zia che, oltre a riparare la macchina, avrebbe potuta anche restaurarla, ravvivandone i colori ormai sbiaditi, le decalcomanie consumate e ammodernandone il mobile. Eravamo a fine anni Sessanta e il tarlo della modernità stava cominciando a conquistare un po’ tutti gli italiani e quindi la zia decise di seguire il suo consiglio.

   Quando la gloriosa Singer terminò l’operazione di maquillage, fu come se al suo posto, in casa Piazza, fosse tornata un’altra cosa. Lucida era lucida, i colori erano brillanti ma non avevano più quella patina che solo il tempo e il quotidiano lavoro possono dare; le parti cromate erano luccicanti, sì, ma dov’era adesso quel segno opaco sulla ruota piccola lasciato dalla mano della zia? E la robusta intelaiatura metallica che, ai miei occhi di bambino, la rendeva simile alla struttura della Torre Eiffel? Scomparsa, ingabbiata, inglobata all’interno di un parallelepipedo di legno che ne nascondeva le forme, rendendo la macchina simile ad una ghiacciaia. La voce del pedale, poi, era diventata un’altra, anonima, ovattata, afona, senza quegli armonici che ne caratterizzavano le sonorità ora profonde ora acute.

   Morale della favola? Da quel giorno, per me,quello strumento di lavoro cessò di essere la Singer e divenne soltanto un utensile per cucire; fu come se un amico, partito per un viaggio in un paese lontano, fosse tornato completamente cambiato, diverso da quello al quale confidavi i tuoi segreti, col quale dividevi le tue giornate o camminavi a braccetto. Era sofisticato, snob, distante, era diventato un altro, perdendo per sempre la sua personalità, il suo carattere.

Così avvenne per la gloriosa Singer!