Portolano per rotte inedite verso lidi inesplorati – Fondato e diretto da Luigi Sanlorenzo

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La saggezza di Don Chisciotte e la follia dell’ Occidente

di Luigi Sanlorenzo 

Mi vuoi dire, caro Sancho, che dovrei tirarmi indietro
Perché il Male ed il Potere hanno un aspetto così tetro?
Dovrei anche rinunciare ad un po’ di dignità,
Farmi umile e accettare che sia questa la realtà?

Francesco Guccini, Don Chisciotte, in Stagioni, 2000 

 

Credo sia noto ai lettori il mio convincimento che troppo spesso capolavori della letteratura mondiale siano stati confinati nella sezione “per ragazzi” anche a motivo della loro carica  eversiva che da adulti potrebbe essere colta con effetti non sempre graditi al potere di ogni tempo.

Così scrivevo nel maggio del 2021 su Lo Spessore:

“Insomma sembra proprio che il piacere di narrare e la capacità di incantare il lettore siano rimasti nascosti tra le pagine dei grandi classici della letteratura, talvolta ridotti al rango di  “letteratura giovanile” come nel caso di Moby Dick di Hermann Melville di cui ricorre il centosettantesimo anniversario della pubblicazione o del Davide Copperfield di Charles Dickens o del Don Chisciotte di Miguel Cervantes, veri e propri apologhi del travaglio umano e del suo disperato e titanico  confronto con la potenza incomprensibile della natura nel suo inestricabile dispiegarsi. Con la differenza che i giovanissimi di oggi hanno altri riferimenti e talvolta si imbattono in tali personaggi solo grazie alla graphic novel che ne rispolvera di tanto in tanto i fasti e le atmosfere ma che, inevitabilmente,  priva il lettore  di pagine e pagine di descrizioni dei luoghi e dei caratteri dei personaggi, elementi cruciali in cui “esplode” letteralmente il talento del narratore,  imprimendo nel testo inestinguibili tracce di quella creatività e della capacità di immaginazione che soltanto le parole scritte bene possono generare.” 

Il 16 gennaio del 1605 veniva pubblicato, quale  primo dei due volumi che lo costituiscono,  il Don Chisciotte. Cervantes ebbe una vita non facile, figlio di un cerusico ambulante, in una rissa compì un reato e venne condannato al taglio della mano destra, per nostra e sua fortuna non perderà la mano. Fuggì infatti in Italia e partecipò nel 1571 alla battaglia di Lepanto, di conseguenza le storie delle battaglie dei paladini moderni che i due goffi straordinariamente eroicomici personaggi Chisciotte e Sancho sono anche un riflesso della sua vita. 

Alla battaglia di Lepanto perde la mano sinistra, con una sola mano continuerà a combattere, viene preso prigioniero, mandato ad Algeri, dove rimane cinque anni. Sembra sia stato anche nel sud d’Italia a curarsi e in questa occasione probabilmente vide il teatro dei pupi, dei pupi siciliani, che forse ispirarono con le loro storie dei paladini trasmesse lungo i secoli almeno in parte le storie di Chisciotte e di Sancho. 

La letteratura picaresca è letteratura eroicomica che riprende la tradizione del cavaliere errante e la riduce ai brandelli della quotidianità, ne fa una giocosa messa in scena teatrale dell’antica ed eroica letteratura dei cavalieri erranti, che vanno nel mondo, come diceva uno degli autori dei romanzi medioevali, in cerca del senso del mondo; oramai il senso del mondo sembra essersi perduto, il picaro e il Chisciotte, che del picaro prende la tradizione e la rinnova, rappresenta il punto di saldatura e di rottura suprema tra il senso del mondo che la letteratura riproduce e il mondo che ha perduto i sui sensi.

Franz Kafka ha scritto un piccolo racconto intitolato “La verità su Sancho Panza”, in cui sostiene che Chisciotte è un invenzione di Sancho. Sancho è la realtà, ma è contemporaneamente un profondo rivoluzionario. Chisciotte crede ancora nella possibilità che i libri riproducano il reale, gli diano senso, esattamente come i libri di cavalleria medioevali facevano; il vero conservatore, anzi il vero reazionario, in fondo è lui che vuole nel pieno di una società come quella barocca, come quella che ha conquistato oramai il nuovo mondo, combattendo le grandi guerre di religione, in questo tipo di società,

Chisciotte vuole conservare la cavalleria, vuole come dice in un punto del suo romanzo, rinnovare, richiamare in vita tutti i grandi cavalieri del passato; è lui stesso tutti i cavalieri del passato, ed in questa dimensione è un conservatore.

Chisciotte è diventato pazzo a forza di leggere libri, sappiamo bene che il curato e il barbiere andranno nella sua biblioteca prenderanno tutti i libri e li butteranno in un rogo;  su questo rapporto tra i libri e la realtà ha scritto Michael Focault nel libro “Le parole e le cose, di cui si dirà più avanti.
 

Numerosi temi presenti nel romanzo cervantino alimenteranno la poetica borgesiana, (“Finzioni” 1944) costituendovisi in topoi: la reazione contro la cultura dominante, la fantasia e la realtà, il carattere problematico del romanzo, il contrasto tra vita attiva e vita contemplativa (il discorso delle armi e delle lettere), la relazione tra poesia e filosofia e, quindi, la questione della lingua come simbolo di umanità e di civile conversazione (influenza dei dialoghi di Platone), l’idea del romanzo nel romanzo, del libro dello stesso autore nel romanzo, l’idea dell’amore.

Anche Cervantes, come Borges, è poeta, non filosofo, ma sa cogliere l’essenza delle questioni e ne fa materia di fantasia, di sublime poesia.

Michel Focault, nell’opera “Le parole e le cose” pubblicato per la prima volta in Francia da Gallimard nel 1966, coglie nel  libro di Cervantes un grande gioco sulla realtà, ma anche un gioco in cui noi siamo coinvolti, perché in fin dei conti se i personaggi di una finzione possono leggere il libro in cui essi esistono, allora anche noi possiamo essere finti, fittizi, essere noi stessi personaggi di un grande libro, quel grande libro che è la storia nella quale noi stessi siamo iscritti. 

“Con i loro giri e rigiri le avventure di don Chisciotte tracciano il limite: in esse hanno termine i giochi antichi della somiglianza e dei segni; in esse già nuovi rapporti si stringono. Don Chisciotte non è l’uomo della stravaganza ma piuttosto il pellegrino meticoloso che fa tappa davanti a tutti i segni della similitudine. 

È l’eroe del Medesimo. Non riesce ad allontanarsi dalla familiare pianura che si stende attorno all’Analogo, proprio come non riesce ad allontanarsi dalla sua angusta provincia. Incessantemente la percorre, senza mai varcare le frontiere nette della differenza né raggiungere il cuore dell’identità. Egli stesso è fatto a somiglianza dei segni. direttamente dallo sbadiglio dei libri. L’intero suo essere non è che linguaggio, testo, fogli stampati, storia già scritta. È fatto di parole intersecate; è scrittura errante nel mondo in mezzo alla somiglianza delle cose.

Non del tutto però: nella sua realtà di povero hidalgo può infatti divenire il cavaliere soltanto ascoltando da lontano l’epopea secolare che formula la Legge. Il libro è più il suo dovere che la sua esistenza. Senza posa deve consultarlo per sapere che fare e che dire e quali segni dare a se stesso e agli altri per mostrare che la sua natura è la stessa del testo dal quale è uscito.
I romanzi di cavalleria hanno scritto una volta per tutte la prescrizione della sua avventura. E ogni episodio, ogni decisione, ogni impresa saranno segni del fatto che don Chisciotte è realmente somigliante a tutti i segni da lui ricalcati.

Ma se vuole essere loro somigliante è perché deve dimostrarli, è perché ormai i segni (leggibili) non somigliano più agli esseri (visibili). Tutti quei testi scritti, tutti quei romanzi stravaganti sono appunto senza uguali: nessuno al mondo è mai stato ad essi somigliante; il loro linguaggio infinito resta in sospeso senza che alcuna similitudine arrivi mai a riempirlo; possono bruciare tutti e per intero, la figura del mondo non né resterà cambiata.

Somigliando ai testi di cui è il testimone, il rappresentante, l’analogo reale, don Chisciotte deve fornire la dimostrazione e farsi portatore del segno indubitabile che dicono il vero, che sono il linguaggio del mondo.

Gli tocca adempiere la promessa dei libri. È suo compito rifare l’epopea, ma in senso inverso: questa narrava (pretendeva narrare) gesta reali, promesse alla memoria; don Chisciotte invece deve colmare con la realtà i segni, senza contenuto, della narrazione.

La sua avventura sarà una decifrazione del mondo: un percorso minuzioso per rilevare sull’intera superficie della terra le figure che mostrano che i libri dicono il vero. La prodezza deve diventare prova: consiste non già nel trionfare realmente – è per questo che la vittoria è in fondo irrilevante – ma nel trasformare la realtà in segno. In segno attestante l’esatta conformità dei segni del linguaggio alle cose stesse. Don Chisciotte legge il mondo per dimostrare i libri. E non fornisce a sé prove diverse dal luccichio delle somiglianze.

Tutto il suo cammino è una ricerca delle similitudini: le più tenui analogie vengono sollecitate come segni assopiti che occorre risvegliare perché riprendano a parlare. Le greggi, le fantesche, le locande somigliano ai castelli, alle dame, agli eserciti. Somiglianza ogni volta delusa che trasforma la prova cercata in derisione e lascia per sempre vuota la parola dei libri.

Ma la non-similitudine stessa ha il proprio modello da essa servilmente imitato: lo trova nella metamorfosi dei maghi. Per cui tutti gli indici della non-somiglianza, tutti i segni che mostrano che i testi scritti non dicono il vero, somigliano al gioco dell’incantesimo che introduce con l’astuzia la differenza nell’indubitabile della similitudine. E poiché questa magia è stata prevista e descritta nei libri, la differenza illusoria da essa introdotta non sarà mai altro che una somiglianza stregata. Un segno supplementare quindi del fatto che i segni somigliano alla realtà.

Don Chisciotte traccia il negativo del mondo del Rinascimento; la scrittura ha cessato di essere la prosa del mondo; le somiglianze e i segni hanno sciolto la loro antica intesa; le similitudini deludono, inclinano alla visione e al delirio; le cose restano ostinatamente nella loro ironica identità; sono soltanto quello che sono; le parole vagano all’avventura, prive di contenuto, prive di somiglianza che le riempia; non contrassegnano più le cose; dormono tra le pagine dei libri in mezzo alla polvere.

La magia, che consentiva la decifrazione del mondo scoprendo le somiglianze segrete sotto i segni, non serve più che a spiegare in termini di delirio perché le analogie sono sempre deluse.

L’erudizione che leggeva come un testo unico la natura e i libri è rimandata alle sue chimere: deposti sulle ingiallite pagine dei volumi, i segni del linguaggio non hanno più come valore che la tenue finzione di ciò che rappresentano. La scrittura e le cose non si somigliano. Tra esse, don Chisciotte vaga all’avventura.

Eppure il linguaggio non è divenuto del tutto impotente. Detiene ormai nuovi poteri, che gli sono propri. Nella seconda parte del romanzo don Chisciotte incontra personaggi che hanno letto la prima parte del testo e che riconoscono in lui, uomo reale, l’eroe del libro.
Il testo di Cervantes si ripiega su se medesimo, sprofonda nel proprio spessore, diventa per sé oggetto della propria narrazione. La prima parte delle avventure svolge nella seconda la funzione assunta all’inizio dai romanzi di cavalleria. Don Chisciotte deve essere fedele al libro che egli è realmente diventato; ha il dovere di proteggerlo dagli errori, dalle contraffazioni, dalle contaminazioni apocrife; deve aggiungere i dettagli omessi; deve serbare la sua verità.

Ma, per quanto lo riguarda, questo libro non l’ha letto e non deve leggerlo, dal momento che lo è in carne e ossa. Egli che, a furia di leggere libri è  divenuto un segno errante in un mondo che non lo riconosceva, eccolo divenuto, suo malgrado e senza saperlo, un libro che detiene la sua verità, annota esattamente tutto quello che egli ha fatto e detto e veduto e pensato, e che consente infine di riconoscerlo, tanto somiglia a tutti i segni la cui scia incancellabile esso ha lasciato dietro di sé.

Tra la prima e la seconda parte del romanzo, nell’interstizio tra i due volumi, e in virtù del loro solo potere, don Chisciotte ha acquistato la sua realtà.
Realtà che deve solo al linguaggio e che resta tutta quanta interna alle parole. La realtà di don Chisciotte non è nel rapporto tra parole e mondo, ma nella tenue e costante relazione che i segni verbali intrecciano da sé a sé.
La finzione delusa delle epopee è divenuta il potere rappresentativo del linguaggio. Le parole si sono chiuse sulla loro natura di segni.

Don Chisciotte è la prima delle opere moderne poiché in essa si vede la crudele ragione delle identità e delle differenze deridere all’infinito segni e similitudini, poiché il linguaggio, in essa, spezza la sua vecchia parentela con le cose, per entrare in quella sovranità solitaria da cui riapparirà, nel suo essere scosceso, solo dopo che è diventato letteratura; poiché la somiglianza entra così in un’età che per essa è quella dell’insensatezza e dell’immaginazione.

Una volta attuata la separazione tra similitudine e segni, due esperienze possono costituirsi e due personaggi emergere e fronteggiarsi. Il pazzo, inteso non come malato, ma come «devianza» costituita e alimentata, come funzione culturale indispensabile, è divenuto, nell’esperienza occidentale, l’uomo delle somiglianze selvagge.

Questo personaggio, nella forma in cui compare nei romanzi o nel teatro dell’età barocca, e in quella entro la quale si è istituzionalizzato a poco a poco fino alla psichiatria del XIX secolo, è colui che si è alienato nell’analogia. 

È lo sregolato burattinaio del Medesimo e dell’Altro; prende le cose per quelle che non sono e le persone le une per le altre; ignora gli amici, riconosce gli estranei; crede di smascherare e impone una maschera. Inverte tutti i valori e tutte le proporzioni, perché crede continuamente di decifrare dei segni: per lui gli orpelli fanno un re.
Nella percezione culturale che si è avuta del pazzo fino alla fine del XVIII secolo, esso è il Differente solo nella misura in cui non conosce la Differenza; non vede ovunque che somiglianze e segni della somiglianza; tutti i segni per lui si somigliano e tutte le somiglianze valgono come segni.

All’altro estremo dello spazio culturale, ma vicinissimo per la sua simmetria, il poeta è colui che, al di sotto delle differenze nominate e quotidianamente previste, ritrova le parentele sepolte delle cose, le loro similitudini disperse.
Sotto i segni stabiliti, e loro malgrado, afferra un altro discorso, più profondo, che richiama il tempo in cui le parole scintillavano nella somiglianza universale delle cose: la Sovranità del Medesimo, così difficile da enunciare, cancella nel suo linguaggio la distinzione dei segni.

Di qui indubbiamente, nella cultura occidentale moderna, il fronteggiarsi della poesia e della follia. Ma non è più  il vecchio tema platonico del delirio ispirato. E’ segno di una nuova esperienza del linguaggio e delle cose. Nei margini di un sapere che separa gli esseri, i segni e le similitudini, e al fine di limitarne il potere, il pazzo si rende garante della funzione dell’omosemantismo: raccoglie tutti i segni e li colma di una somiglianza che non cessa di proliferare.
Il poeta garantisce la funzione contraria: assolve alla funzione allegorica; sotto il linguaggio dei segni e il gioco delle loro distinzioni ben ritagliate, si pone all’ascolto dell’«altro linguaggio», quello, senza parole né discorso, della somiglianza.
 

Il poeta fa venire la similitudine fino ai segni che la dicono, il pazzo carica tutti i segni d’una somiglianza che finisce col cancellarli.
Situati sull’orlo estremo della nostra cultura e vicinissimi alle sue divisioni essenziali, essi si trovano così, l’uno e l’altro, in quella «situazione al limite» – posizione marginale e profilo profondamente arcaico – in cui le loro parole incessantemente trovano il loro potere di estraneità e la risorsa della loro contestazione.”

Fra loro si è schiuso lo spazio d’un sapere nel quale, in virtù di una rottura essenziale nel mondo dell’Occidente, non si avrà più da fare con similitudini, ma con identità e differenze.

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Ecco al di sotto della meraviglia delle fiabe, delle avventure del Chisciotte c’è questo profondo riflettere sulla realtà del mondo in mutamento, sulla realtà della modernità che trasforma alla radice i rapporti sociali, politici, culturali tra le persone, tra le classi e anche tra le idee delle persone e le parole che queste idee rappresentano.

In questo senso dunque è un libro che genera altri libri: così fu per “L’idiota” di Dostoevskij, uno dei suoi grandi libri, quando ideò il personaggio del principe Myškin pensò a Chisciotte e scrisse nei suoi appunti che il principe doveva camminare come Chisciotte, avere quell’andatura traballante nel mondo. L’idiota è ancora il folle, è ancora il folle che non riesce a venire a patti con le proprie idee e la propria interiorità, con il proprio esteriore, la letteratura e la vita.

In “La tragedia del genere umano” per il filosofo Miguel de Unamuno, Don Chisciotte è l’inganno della letteratura, è l’autoinganno della letteratura. Il poeta è colui che in realtà trova la misura delle cose nel essere somiglianti alle idee che ci facciamo su di esse, ma non perfettamente coincidenti, va sempre in cerca di uno scarto sottile tra ciò che è e ciò che vorremmo che fosse, ciò che è e ciò che crediamo sia, quindi trova le similitudini disperse tra le cose, quelle che gli occhi quotidiani non vedono: questa è la grande virtù del poeta Chisciotte, dell’avventuroso folle che ci fa saggi con la sua follia.

 “Di contro alla «scienza dell’intelletto» – scrive Giovanni Sessa nell’ introduzione – che distingue, divide e parla del e sul mondo, Don Chisciotte-de Unamuno propone la «scienza del cuore», che pensa non con la sola testa, ma con il corpo, con la viva carne, con l’anima. Del resto, de Unamuno, sostenne con forza, a proposito della creazione poetica: «Se la poesia non ci libera della logica, a null’altro ci può servire». Questa la «follia» di Don Chisciotte, la sua costitutiva utopia. Egli si getta nel mondo per mostrare, con le sue sole forze, con l’esempio, la possibilità di un’altra vita. Naturalmente, come accadde a de Unamuno, anche il Cavaliere errante dovette subire lo scherno e il dileggio egli uomini: «stupidi per eccesso di sensatezza», chiusi nella cittadella del pregiudizio, nelle abitudini macchinali. 

Don Chisciotte nutre la propria presenza nel mondo di una sola certezza: essere uomini è un compito, una possibilità e per essere realmente esistenti bisogna nascere in spirito. Il cavaliere errante realizzò, nell’agire, nell’andare incontro all’avventura del mondo, quell’ ideale che aveva appreso ad amare dalla letteratura cavalleresca, quel mondo che agli uomini di «buon senso» sembra morto da tempo, ma che in realtà, in quanto origine è sempre possibile. 

Penso che non ci sia nulla di più necessario della letteratura, cioè di Chisciotte, la sua necessità sta proprio nel fatto che non serve proprio a nulla, cioè che non è al servizio di nulla. A che serve una poesia? Direi che una poesia non serve, è quel dono di cui Giorgio Caproni ci ha parlato in una splendida poesia di Res Amissa: un dono che come una rosa ha le sue spine. Dimentichiamo chi ci ha fatto quel dono e ci rimane la rosa. La poesia è questo, la letteratura è questo: una necessaria finzione che non deve portarci fuori dal reale, deve aprire nel reale uno spazio che non è al servizio di nulla, che non serve, e per questo è necessario.

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Il Don Chisciotte ha ispirato e credo continui ad ispirare oggi i cantautori. Francesco Guccini ha scritto una bellissimo testo, che è anche una bellissima canzone in cui Chisciotte parla con Sancho e gli spiega che anche lui è stato un realista, poi ho scoperto che essere idealisti è più importante che essere realisti, l’idealista è un realista che nella realtà trova un seme nuovo, trova un senso che il puro realista non riesce a riconoscere. 

E’ quel di più, è quell’aggiunta del gratuito, dell’inutile e quindi necessario che è appunto il farsi delle idee, avere un’ideale. Cito solo Guccini, ma potrebbe essere citato Lucio Dalla, che amava molto Chisciotte, oppure Mimmo Cuticchio, il grande cantastorie siciliano che ha ripreso questo tema e ne ha colto la violenta presenza nel mondo quotidiano, un mondo di gente che non fa che invitarci a credere soltanto alla realtà, all’importanza del successo, del guadagno, delle cose.

I giovani non credono più nel donchisciottismo, io credo invece che vada di nuovo proposta loro non la follia del don Chisciotte ma questo scarto rispetto al reale, questa voglia di conservare se stessi, le idee, il passato che siamo e la tradizione che portiamo. Lo scollamento che noi stiamo provando, che i giovani stanno provando, per esempio verso la politica, la sfiducia nella politica, il non sentirsi più riconosciuti nella delega politica, e di conseguenza l’abbandono dell’idealità, e della partecipazione al reale (partecipare vuol dire non tanto appropriarsi del reale quanto volerlo cambiare, voler interferire con esso) credo che in questo interstizio delicato e difficile si trovi forse una risposta a questa domanda.

C’è un punto, vorrei proporlo come allegoria, che è forse anche di tipo politico e civile: anche Sancho diventa Chisciotte ad un certo punto. Chisciotte promette a Sancho, in uno dei primi capitoli del libro: “se verrai con me nelle mie avventure ti regalerò un’isola come Alessandro magno nella tradizione letteraria aveva fatto con un suo giullare”. Sancho crede in questa isola, ma è proprio questo credere profondamente e aspettare l’isola e cercarla e combattere a fianco del suo eroe che fa di Sancho un piccolo don Chisciotte, un Chisciotte in potenza. 

Alla fine di questo lungo viaggio domenicale, è forse il caso di riflettere su un libro letto da ragazzi e poi dimenticato;  forse questo ci porterà ad essere,  senza angosce o complessi di colpa,  un po’ Sancho e un po’ Chisciotte, ogni giorno della nostra vita