Portolano per rotte inedite verso lidi inesplorati – Fondato e diretto da Luigi Sanlorenzo

Attualità

La guerra nel Donbass. Un incubo che ritorna.

La posizione geografica e la successione delle date sono le coordinate essenziali per comprendere la storia e l’identità di ogni territorio e decifrarne le dinamiche interne ed internazionali.

Nascosta per oltre un secolo dietro la Cortina di  Ferro e parte integrante dell’URSS dal 1922, di quel Paese, grande quanto la Francia, gli europei e gli italiani in particolare non si sono mai interessati in modo particolare.

Giusto qualche ricordo scolastico della vicina Crimea, teatro della guerra del 1853 contro la Russia  in cui il saggio Cavour volle far partecipare, accanto alla Francia e all’impero ottomano  il piccolo Regno di Sardegna per ottenere poi un posto al tavolo della pace e corroborare le alleanze necessarie a completare l’Unità d’Italia. Un capolavoro di strategia non sempre ricordato e che ispirò tragicamente Mussolini quando pensò che, attaccando proditoriamente la Francia nel 1940,  con uno scarso numero di caduti si sarebbe guadagnato il posto accanto alla Germania che trionfava nella Guerra Lampo. 

Sappiamo tutti come sia finita.

Qualche altro ricordo risale al periodo tra il 1941 e il 1944 quando l’Ucraina fu occupata dalle forze dell’Asse nell’ambito della Campagna di Russia e oltre trentamila ucraini si arruolarono nelle Waffen-SS in funzione antibolscevica, rendendosi complici di eccidi nei confronti della popolazione civile ebrea e comunista perpetrati dalle unità speciali Einsatzgruppen le cui vicende sono state raccontate nel romanzo “Le benevole” (Les bienviellantes) dello scrittore franco americano Jonathan Littel, pubblicato nel 2006, la cui lettura consiglio.

Forse qualcosa si ricorderà dei cavalieri cosacchi, la cui epica fu celebrato da Gogol, originari di quella regione e della  tragica adesione al nazismo. Alcuni corpi furono ridislocati insieme alle famiglie in Carnia e nell’alto Friuli dove vennero impiegati contro le formazioni partigiane italiane e jugoslave.

Infine,  la tragedia della centrale nucleare di Cernobyl’ che nel 1986 mise in allarme tutta l’Europa; recenti film e serie di successo su diverse reti televisive ne hanno perpetuato il ricordo.

E ci fermiamo lì, poichè di quel mondo, parte essenziale della storia europea,  poco o nulla si insegna nelle scuole o nelle università, tranne ovviamente che nei corsi di studio dedicati alla lingua e alla letteratura russa. 

Per larga parte degli italiani e, spiace dirlo,  anche dei politici, l’ Ucraina – e figuriamoci il Donbass – potrebbero essere indifferentemente collocate in Indocina o nelle regioni che separano la Russia dall’ India, teatro del “Grande Gioco” termine coniato da Rudyard Kipling,  che è ancora in atto e per il quale si veda il saggio di Peter Hopkirk nel 2010 che ho citato in più occasioni https://www.lospessore.com/11/03/2021/dalla-montagna-incantata-ai-deserti-dellarabia-felix-breve-saggio-sul-grande-gioco/

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La storia dell’Ucraina è millenaria, luoghi come Kiev ed Odessa sono stati la culla della storia russa e della religione ortodossa prima, (durante)  e dopo la Rivoluzione di Ottobre. 

Di una sterminata bibliografia, i testi più recenti ed attuali possono essere reperiti su https://www.unilibro.it/libri/f/argomento/ucraina

Qui possono tornare utili alcune considerazioni in merito alle dinamiche di un’area geografica di cui chi scrive ha sempre sostenuto la necessità di considerarla parte irrinunciabile dell’identità europea https://www.linkiesta.it/2021/03/russia-putin-europa-biden/.

La prima considerazione attiene alla perenne “sindrome da accerchiamento” che ha connotato la storia russa. Un disagio profondo che portò prima alla spasmodica necessità di disporre di uno sbocco nel bacino del Mediterraneo tradizionalmente dominato dalla marina britannica, successivamente alla necessità di difendersi dall’espansione musulmana che minacciava non solo i territori oltre i monti Urali ma la stessa profonda identità religiosa ortodossa, infine l’espansione dell’Alleanza atlantica,  sempre protesa ad avvicinare il territorio sovietico alla gittata dei propri missili, nonostante i forti movimenti di protesta che negli ’70 e ’80 del novecento fiorirono, talvolta in modo spontaneo e talvolta finanziati da Mosca,   in Francia e in Italia. Un elemento che oggi si ripresenta con drammatica attualità.

La seconda considerazione riguarda il tema delle risorse energetiche, con particolare riferimento al gas naturale, poichè la Russia ha le più grandi riserve mondiali di gas naturale e fornisce l’Europa (e l’Italia) da oltre 50 anni. Un prezioso capitale energetico che spesso salvò i sovietici dalla fame, accedendo agli scambi gas contro frumento, nelle frequenti annate di produzione interna insufficiente.

La terza considerazione riguarda il tema dei diritti umani e civili e della trasparenza (glanost)  che hanno costituito l’invalicabile diaframma tra la sensibilità europa al riguardo e rispetto al quale va ricordato che la società russa è passata, senza la necessaria transizione borghese, dall’assolutismo zarista a quello sovietico di cui oggi la Russia di Vladimir Putin ha ereditato gli aspetti peggiori, elemento tanto più grave perchè accompagnato in modo schizofrenico al selvaggio sviluppo del dominio del mercato.  

Anche in questo caso, una transizione mancata che, nella corruzione generale e nella palese ostilità alla gradualità delle riforme (perestrojka) invocata da Gorbacev, ha trasferito i beni e le risorse strategiche industriali e militari ad un ristretto gruppo di oligarchi che hanno preso il posto che fu dei boiardi, prima, e dei gerontocrati sovietici successivamente.

La combinazione dei tre fattori, e di altri di non minore importanza, hanno contribuito ad ingigantire il vero problema della società russa: la divaricazione tra popolo e potere che, in Occidente, trova composizione soltanto attraverso l’esercizio della democrazia e la tripartizione dei poteri.

Sulla rivista francese “Il Grand Continent” diventata un punto di riferimento del dibattito strategico, politico e intellettuale e dal 2021 integralmente scritta in italiano, Carolina de Stefano ha così notato nel settembre scorso: 

“La Russia di Vladimir Putin è entrata in una fase brezneviana. Nel contesto delle ultime elezioni legislative, dove il nuovo successo di Russia Unita nasconde la costante perdita di popolarità del partito del Presidente, si pone la questione della natura tecnocratica e autoritaria del regime e del suo futuro a lungo termine. La Russia così com’è potrebbe sopravvivere al suo attuale leader (……) Un maggiore controllo sulle regioni, un miglioramento delle prestazioni statali, un controllo quasi paranoico dei cittadini possono rafforzare il regime nel medio termine, e questo anche al di là e oltre Putin.”

“Il problema di fondo – conclude de Stefano –  però rimane: un regime autoritario, per quanto governato da tecnocrati più o meno efficienti e memori del crollo dell’URSS, non ha maniera di colmare le inefficienze di un sistema che reprime l’attività privata e la libertà di espressione, e rischia di generare malcontento e quindi repressioni ulteriori, fino ad un limite valicato il quale il regime cesserà di funzionare.”

Un esempio concreto mostra che perfino la trasformazione digitale guidata dall’alto, e alla russa, funziona sulla carta, ma non nella realtà. La città di Innopolis, nella repubblica del Tatarstan, è stata creata nel 2015 come un polo futuristico di produzione di nuove tecnologie. Riconosciuta ‘zona economica speciale’, dotata dei primi taxi automatici senza autista, uno dei suoi obiettivi ufficiali è quello di attrarre le più promettenti industrie tecnologiche nazionali ‘e da tutto il mondo’. 

Il paradosso, però, raccontato dal giornalista Leonid Ragozin in un bellissimo reportage, è che la popolazione di giovani studiosi e brillanti chiamata a lavorare lì (e che spesso è già stata all’estero) è politicamente più vicina all’opposizione che non a Putin, tanto che queste città ‘ideali’ possono in realtà trasformarsi in poli di protesta attiva contro il regime. Gli abitanti di Innopolis hanno poi patito da subito il controllo e i limiti imposti dal governo sui progetti che vogliono sviluppare, con il risultato che, nonostante i mezzi messi a disposizione, molti se non sono già andati.

Cinzia Rizzi ha scritto domenica scorsa su Euronews: 

“Fiori e lumini sono stati deposti questa domenica al memoriale in piazza Indipendenza (o Maidan), a Kiev, per commemorare le oltre 100 vittime delle proteste di massa pro europee del 18-20 febbraio 2014. Presente anche Petro Poroshenko, considerato uno dei maggiori sostenitori della rivoluzione, che in quell’anno divenne presidente dopo la destituzione del filorusso, Viktor Janukovyč.

 “Gli ucraini sono orgogliosi di aver voltato le spalle al Cremlino otto anni fa, nonostante abbiano dovuto pagare un costo elevato, sia a livello di vite umane che psicologico, dovendo convivere quotidianamente con i timori di un’invasione russa.”

“Dobbiamo ricordare che hanno dato la loro vita per l’Ucraina e per il nostro futuro europeo – dice un uomo originario di Donetsk, oggi residente a Kiev -. Dobbiamo rispettarli e amarli”. “Non c’è nulla che facciamo invano in questo mondo, ma è un peccato non essere ancora riusciti a realizzare nulla” dichiara un altro ucraino.


Le province del Donbass
 

E’ comprensibile, allora,  che gli ucraini delle due province di  Donetsk e Luhansk, auto-proclamatesi repubbliche del Donbass e che Putin ha riconosciuto,  guardino a Mosca per non restare minoranza nel generale sentimento a favore dell’ Europa, dal momento che si tratta di un territorio ad alto tasso russofono, ma anche e soprattutto di un ricco bacino carbonifero. Questo è il Donbass, bacino del Donec, dal nome dell’omonimo fiume, importante affluente del “placido Don”,  che lo attraversa. E’ dunque una zona dell’Ucraina orientale al confine con la Russia, che si estende in tre oblast’ (regioni), tra cui quello di Doketsk, la città principale.

Nel Donbass oltre 770mila ucraini hanno il passaporto russo, su una popolazione di circa 5 milioni di abitanti, e secondo Mosca negli ultimi giorni altri 950mila residenti hanno fatto la stessa richiesta. Con la ‘madre Russia’ c’è un legame antico, rafforzato da una chiesa ortodossa locale che si è staccata da quella ucraina per legarsi a Mosca. Questo legame si nutre anche dell’insofferenza della popolazione verso lo Stato centrale. Perché le condizioni generali di vita, dall’uscita dell’Ucraina dall’Urss, nel 1991, sono peggiorate progressivamente. E allo stesso tempo, sono cresciute le pulsioni secessioniste.

Copertosi le spalle dopo il recente incontro con Xi-Jinping,  l’aspirazione di Putin di unire il Donbass alla  Crimea già annessa nel 2014 è forse qualcosa in più della pretesa di interporre uno stato cuscinetto tra Nato e Russia;  essa nasconde invece un antico disegno egemonico che non esiterà a svilupparsi sino alle estreme conseguenze.

Ed è inevitabile che il ricordo vada a quel fatidico marzo del 1938  quando Adolf Hitler rivendicò i diritti dei abitanti del Territorio dei Sudeti, popolazione di lingua e cultura tedesca, in danno della Cecoslovacchia che, poco più di un anno dopo sarebbe stata  il primo territorio ad essere invaso dalla Wehrmacht, nonostante gli accordi di Monaco e il duro avvertimento di Winston Churchill sulla loro inutilità.

In passato ho scritto che le grandi guerre del ‘900 hanno avuto come pretesto la difesa di piccoli popoli di confine dall’identità mista e combattuta; sorte come “guerre di teatro” hanno coinvolto presto interi continenti.

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Il XXI secolo si è aperto con una strage che non dimenticheremo mai e di cui abbiamo pagato il prezzo con il fenomeno del fondamentalismo islamico e delle relative conseguenza sullo scenario mondiale e ora  venti di guerra sono tornati a soffiare entro i confini del Vecchio Continente. 

Mentre gli Stati Uniti si muovono con molta prudenza,  minacciando esclusivamente sanzioni alla Russia, l’Unione Europea sarà divisa e inerte come lo fu la Società delle Nazioni che avrebbe dovuto porre fine ai conflitti su larga scala? Sarà la Turchia di Recep Tayyp Erdogan la prossima tensione che ci aspetta ?

Non possiamo saperlo, ma fino a quando saranno tollerati,  per mera convenienza strategica o economica, tiranni ed autocrati pur in doppio petto e dall’eloquio forbito, l’ Umanità non potrà mai sentirsi al sicuro.

 



Filmato della propaganda fascista sull’annessione tedesca dei Sudeti
Istituto Luce, 1938

Mentre questo articolo viene chiuso,  i mezzi blindati russi stanno attraversando il confine  nei pressi di Donetsk, invadendo di fatto l’Ucraina. Accadde a Budapest nell’anno in cui nacqui e nel 1968 a Praga. Non avrei mai immaginato che ne sarei stato testimone ancora una volta nella vita. Allora, almeno per chi ci credeva – ed erano ancora in molti – andavano a difendere i residui valori di un’ideologia che voleva cambiare, a proprio modo,  il mondo; ora mi chiedo cosa ci sia nel cuore di quei soldati,  se non la paura del tiranno che li guida. 

Sono le ore 4.30 del 22 febbraio del 2022,  un giorno in cui milioni di scout di ogni paese libero del Pianeta – compresa l’Ucraina dove il Movimento ha mosso i primi passi solo dal 1999 – festeggiano la data di nascita del proprio fondatore, Robert Baden Powell,  nel cui nome si sentono uniti a tutti gli altri ragazzi del mondo nel comune impegno di lasciare il mondo migliore di come l’hanno trovato. In queste ore in cui i popoli sono con il fiato sospeso per il destino della pace in Europa, sento forte il bisogno di essere accanto a loro, rinnovando anch’io la  promessa di continuare  a fare la mia parte in un mondo che diventa sempre più difficile e pericoloso per tutti e dove la speranza nel futuro e il diritto alla felicità ancora una volta sembrano schiacciati dai cingoli di nuovi carri armati.