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Il visconte rappezzato, il barone calante e il cavaliere resistente. Rileggere Italo Calvino per trovare i personaggi della nostra politica

Quanto ci manca Italo Calvino. Ironia, fantasia, realismo magico brillano per assenza in un panorama letterario affollato da libercoli promossi ogni sera da compiacenti conduttori televisivi, improvvisati critici del dopocena degli italiani.

In una notte d’estate, proviamo a fargli rincontrare, quasi per caso, i personaggi che ha reso memorabili nella mente e nel cuore di molti di noi. In un empito di contemporaneità ne ripercorrerò le vicende che, a tratti, contraddistinguono oggi le rispettive controfigure.

Il visconte “rappezzato” cerca inutilmente di ricomporre la frattura esistenziale dell’originale, condannato ad essere separato tra il bene e il male. Un “Io diviso” alla continua ricerca di una riconciliazione salvifica. Il nostro sosia ha superato il dilemma incollando i pezzi del prima e del dopo, cucendo le pezze multicolore di una duplice identità, rabberciando pensieri e linguaggio in un patchwork che tra le connessure rivela la trama inconsistente.

Inconsapevole della differenza tra bene e male, preferisce ignorarne i contorni, aspirando ad un’edizione fusion di se stesso e del proprio confuso operato, confidando nella scarsa memoria di un popolo piegato da vecchie e nuove emergenze.

«Quando ho cominciato a scrivere “Il visconte dimezzato”, volevo soprattutto scrivere una storia divertente per divertire me stesso e possibilmente per divertire gli altri; avevo questa immagine di un uomo tagliato in due ed ho pensato che questo tema dell’uomo tagliato in due, dell’uomo dimezzato, fosse un tema significativo, avesse un significato contemporaneo: tutti ci sentiamo in qualche modo incompleti, tutti realizziamo una parte di noi stessi e non l’altra», così il nostro Calvino.

“Umano, troppo umano” il visconte calviniano, quale metafora della lotta tra il bene e il male alla ricerca di un equilibrio. Meno nobile il suo contrario, convinto che la metamorfosi sia gestibile come una controversia preturile e che pensa di trovare un posto nella storia del patrio trasformismo. Et de hoc satis, avendone già scritto con dovizia di particolari su queste colonne.

Il barone “calante” a differenza del suo antagonista rampante, sembra invece stia per poggiare i piedi per terra, scoprendo che la realtà non è Facebook e rivelandosi incapace di comprendere che, in un Paese che sta cambiando pelle, bisogni e desideri, occorre rivedere i cliché di un’immagine che si è fermata sulla spiaggia del Papeete. Per sua sfortuna, non sa andare oltre perché ignora se e dove esista qualcosa di alternativo all’uso della paura e all’invenzione di un nemico tra cui spostarsi, balzando tra rami e liane.

«Scendete subito di lassù. Come vi siete permesso d’entrare nel nostro terreno!», fece, puntando un indice contro il ragazzo, incattivita». «Non sono entrato e non scenderò – disse Cosimo con pari calore -Sul vostro terreno non ho mai messo piede, e non ce lo metterei per tutto l’oro del mondo».

La ragazzina allora, con gran calma, prese un ventaglio che era posato su una poltrona di vimini, e sebbene non facesse molto caldo, si sventolò passeggiando avanti e indietro. «Adesso – fece con tutta calma – chiamerò i servi e vi farò prendere e bastonare. Così imparerete a intrufolarvi nel nostro terreno».

Cambiava sempre tono, questa bambina, e mio fratello tutte le volte restava stonato. «Dove son io non è terreno e non è vostro… Qui non è vostro – ripeté – perché vostro è il suolo, e se ci posassi un piede allora sarei uno che s’intrufola. Ma quassù no, e io vado dappertutto dove mi pare».

«Sì, allora è tuo, lassù». «Certo! Territorio mio personale, tutto quassù – e fece un vago gesto verso i rami, le foglie controsole, il cielo – sui rami degli alberi è tutto mio territorio. Di’ che vengano a prendermi, se ci riescono».

Adesso, dopo tante rodomontate, s’aspettava che lei lo prendesse in giro chissà come. Invece si mostrò imprevedibilmente interessata: «Ah sì? E fin dove arriva, questo tuo territorio?». «Tutto fin dove si riesce ad arrivare andando sopra gli alberi, di qua, di là, oltre il muro, nell’oliveto, fin sulla collina, dall’altra parte della collina, nel bosco, nelle terre del Vescovo…». «Anche fino in Francia?», chiese.

«Fino in Polonia e in Sassonia», disse Cosimo, che di geografia sapeva solo i nomi sentiti da nostra madre quando parlava delle Guerre di Successione».

È presto ancora perché la provvidenziale mongolfiera liberi molti di noi da colui che invece il suolo lo adora almeno quanto il governarne le sorti con pieni poteri e noi dai suoi pericolosi deliri? Non possiamo ancora saperlo, ma la parabola di un successo dilagante e inarrestabile fino a pochi mesi fa sembra essere in lieve discesa.

La più dirompente delle immagini al contrario che lo specchio ci invia è quella del cavaliere “resistente”, in parte coerente con l’originale dove donne e relativa verginità costituiscono il fulcro della vicenda intrisa di concessioni e revoche di cavalierati, ma che nei fatti oggi si incarna in un destino inverso.

Il novello Rambaldo infatti esiste e resiste. Da due giorni è sulle cronache mondiali per la diffusione post mortem delle registrazioni audio del giudice Amedeo Franco in merito alla Corte di Cassazione che, con inusitata sollecitudine, ne avrebbe decretato ingiustamente e con pregiudizio politico la condanna per frode fiscale, consegnandolo ad un «plotone di esecuzione» per sancirne la scomparsa dalla scena politica e la damnatio memoriae.

«Berlusconi deve essere condannato a priori perché è un mascalzone! Questa è la realtà. A mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subito una grave ingiustizia. L’impressione che tutta questa vicenda sia stata guidata dall’alto», affermò Franco nel 2013 in un incontro, dopo la sentenza di condanna, con Berlusconi e alcuni testimoni, uno dei quali registrò la conversazione.

«In effetti hanno fatto una porcheria perché che senso ha mandarla alla sezione feriale? Voglio per sgravarmi la coscienza, perché mi porto questo peso del… ci continuo a pensare. Non mi libero… Io gli stavo dicendo che la sentenza faceva schifo». «Sussiste una malafede del presidente del Collegio, sicuramente», dichiarò Franco riferendo voci secondo le quali il magistrato Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Cassazione che emise la sentenza di condanna nell’agosto 2013, sarebbe stato “pressato” per il fatto che il figlio, anch’egli magistrato, era indagato dalla Procura di Milano per «essere stato beccato con droga a casa di…».

Sempre secondo Franco, «i pregiudizi per forza che ci stavano… si potesse fare… si potesse scegliere… si potesse… si poteva cercare di evitare che andasse a finire in mano a questo plotone di esecuzione, come è capitato, perché di peggio non poteva capitare” (riportato da il Sole 24Ore del 30 giugno 2020).

Un terremoto politico-giudiziario si sta abbattendo su uno dei Poteri dello Stato, già incatenato alla colonna infame per il caso Palamara e il ruolo opaco dell’Associazione nazionale magistrati. Ma è anche un caso di mistificazione storica del quale ci aspettiamo una compiuta e approfondita analisi che, in mancanza di quella di Montanelli, solo la penna di Paolo Mieli potrà presto regalarci.

Nell’originale, Agilulfo ha tutto il diritto di essere cavaliere, ma purtroppo, prima che possa sapere la verità, egli si è già tolto la vita: prima di dissolversi lascia in eredità la sua bianca armatura a Rambaldo; non così il Nostro che, già riabilitato, parlamentare a Strasburgo e autoproclamatosi garante dell’europeismo di un’eventuale centro destra al potere, è più vivo di sempre e coltiva come non mai, nonostante l’età, il sogno del Colle più alto.

Italo Calvino riunì i romanzi nella trilogia “I nostri Antenati”, con il chiaro intento di rintracciare nel passato degli italiani vizi privati e pubbliche virtù ereditate nel presente.

In occasione della traduzione inglese di Archibald Colquhoun (1980), scrisse: «Il racconto nasce dall’immagine, non da una tesi che io voglia dimostrare; l’immagine si sviluppa in una storia secondo una sua logica interna; la storia prende dei significati, o meglio: intorno all’immagine s’estende una serie di significati che restano sempre un po’ fluttuanti, senza imporsi in un’interpretazione unica e obbligatoria.

Si tratta più che altro di temi morali che l’immagine centrale suggerisce e che trovano un’esemplificazione anche nelle storie secondarie: nel “Visconte” storie d’incompletezza, di parzialità, di mancata realizzazione d’una pienezza umana; nel “Barone” storie d’isolamento, di distanza, di difficoltà di rapporto col prossimo; nel “Cavaliere” storie di formalismi vuoti e di concretezza del vivere, di presa di coscienza d’essere al mondo e autocostruzione d’un destino, oppure d’indifferenziazione dal tutto».

Irriverenti e ironici, abbiamo voluto rileggere i tre titoli allo specchio, capovolgendone il significato ma riconoscendoci debitori verso la genialità di chi, ancora una volta, con il dono del narratore leggero e affabulante, ha saputo così incisivamente ricordarci chi siamo stati, chi siamo e chi, auspicabilmente, potremmo essere.