Portolano per rotte inedite verso lidi inesplorati – Fondato e diretto da Luigi Sanlorenzo

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Il muro che cadde addosso al mondo

Il 9 novembre 1989, nelle stesse ore in cui scrivo questo articolo,  decine di migliaia di abitanti di Berlino Est si riversarono  attraverso le brecce aperte a colpi di piccone nel Muro nella modernità del XX secolo, concludendone con quel rito di massa la “breve durata” secondo l’ espressione poi canonizzata dallo storico Eric Hobsbawn  nel 1994.

Fa un certo effetto scriverne oggi mentre in Europa e sulle sponde del Mediterraneo orientale quel secolo torna a prendersi una drammatica rivincita riproponendo eventi ed immagini che pensavamo fossero state consegnate alla storia ed alle ricostruzioni cinematografiche.

La giornata era iniziata con notizie frammentarie e soltanto nel tardo pomeriggio, dinanzi all’impossibilità di contrastare un’incontenibile marea umana,   giunse l’ordine di aprire tutti i varchi – i famosi checkpoint che il cinema e le spy stories ci hanno fatto conoscere –  che dal 1961 avevano diviso in due Berlino, la Germania e il mondo intero.

Il 26 giugno del 1963 John Fitzgerald Kennedy aveva pronunciato uno dei discorsi che hanno fatto la storia del pensiero politico democratico.

“ Ci sono molte persone al mondo che non comprendono, o non sanno, quale sia il grande problema tra il mondo libero e il mondo comunista. Fateli venire a Berlino! Ci sono alcuni che dicono che il comunismo è l’onda del futuro. Fateli venire a Berlino! Ci sono alcuni che dicono che, in Europa e da altre parti, possiamo lavorare con i comunisti. Fateli venire a Berlino! E ci sono anche quei pochi che dicono che è vero che il comunismo è un sistema maligno, ma ci permette di fare progressi economici. Lasst sie nach Berlin kommen! Fateli venire a Berlino! Tutti gli uomini liberi, ovunque essi vivano, sono cittadini di Berlino, e quindi, come uomo libero, sono orgoglioso di dire: Ich bin ein Berliner!

La risposta sarebbe arrivata pochi mesi dopo, il 22 novembre da un  fucile Carcano Mod. 91/38 appoggiato da Lee Oswald ad una finestra del Texas School Book Depository di Dallas.

Tutti i muri che la Storia ha edificato nei secoli sono legati a stragi, ad uccisioni, alla sofferenza di interi popoli. Dal Muro del Pianto, ultime vestigia del Tempio di Salomone distrutto dall’imperatore Tito nel 70  e divenuto simbolo della Diaspora degli Ebrei, alla Grande Muraglia Cinese, le cui fondamenta sono fatte di pietre e di corpi degli schiavi che la costruirono, al Vallo di Adriano che segnò l’arresto della penetrazione del  pensiero e del diritto romano nella Britannia settentrionale, al muro del Ghetto di Varsavia, dietro cui iniziò quell’Olocausto che il 7 ottobre di quest’anno ci è stato drammaticamente riproposto e che sembra dimenticato in larga parte dell’Occidente che oggi inneggia ad Hamas.

Altri muri, con o senza pietre,  dividono ancora il mondo. Il  38° Parallelo continua a separare le due Coree; i muri di filo spinato dei paesi europei sovranisti cercano di contenere il flusso dei migranti provenienti dai Balcani, la barriera voluta nel 1990 da George Bush senior e mai messa in discussione dai suoi successori democratici o repubblicani – Bill Clinton, George W. Bush, Barack Obama, Donald Trump e finora nemmeno da Joe Biden –  segna il confine tra USA e Messico all’interno del medesimo continente nord americano; il muro liquido del Canale di Sicilia è un confine non meno spietato e  ormai da anni separa i destini di coloro che si trovano nell’Africa senza speranza da quelli di chi vive, pur tra mille e crescenti difficoltà, nel cosiddetto mondo libero. Anch’esso, come tutti i muri della Storia, è disseminato di vittime i cui nomi non conosceremo mai.

Quel 9 novembre del 1989 a Berlino cessava di fatto in Europa  la seconda Guerra Mondiale e prendeva forma una Germania riunificata che avrebbe saputo restituire a se stessa il proprio futuro, riconquistando la leadership europea attraverso una straordinaria capacità di imporsi come modello industriale e sociale e trasformando in opportunità di sviluppo per milioni di persone, tedesche e non solo, lo stato di minorità civile, economico e spirituale  che aveva contraddistinto oltre metà della nazione e l’intera galassia dei Paesi posti dietro la Cortina di Ferro.

Lo scrittore Gunter Grass vide invece nella riunificazione un pericolo e in occasione della caduta del muro di Berlino, dichiarò che era meglio tenere separate le due Germanie, perché “una nazione unita avrebbe ripreso inevitabilmente il suo ruolo belligerante”.  Indimenticabile poi la citazione  di Francois Mauriac: “J’aime tellement l’Allemagne que je suis ravi qu’il y en ait deux”  successivamente attribuita al sense of humor di Giulio Andreotti: “Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due”.

A lungo abbiamo ritenuto quanto quella  preoccupazione non fosse esagerata,  se interpretata alla luce dell’azione frenante  che la Germania indubbiamente ha imposto, pur giustificandola in tanti modi,  al processo di unificazione politica dell’Europa. 

Quella notte del 9 novembre,  tra  frammenti di ferro e calcinacci, il violoncellista e direttore d’orchestra russo naturalizzato statunitense Mstislav Leopoldovich Rostropovich tenne un concerto  sotto il muro di Berlino: la sua esibizione improvvisata in quella occasione fece il giro del mondo in tutte le televisioni.

Oggi, forse a motivo dell’origine russa del musicista poi scomparso ottantenne nel 2007, quel concerto sarebbe stato censurato.

Tra quelle note, tra quei volti, tra le lacrime di felicità sembrò per alcuni anni che una nuova speranza pervadesse il mondo intero. Il Muro era caduto addosso ad ideologie consunte, ad intere classi dirigenti incapaci di prevedere il futuro.

Le pietre ed i calcinacci sommergevano stili di vita, linguaggi e slogan che avevano segnato trenta anni di vita ed generato in Italia  tragici epigoni, sottoforma di giovani terroristi, abilmente manovrati da quanti di quel Muro avevano bisogno, dall’una e dall’altra parte, per definire se stessi. Quei medesimi poteri forti e oscuri  che dopo l’attentato alle Torri del World Trade Center dell’ 11 settembre del 2001 avrebbero evocato un nuovo nemico – l’Islam – per tenere sempre viva quella paura di cui  ogni oligarchia ha bisogno per esercitare e mantenere il controllo sociale.

Nell’Enciclica Centesimus Annus data alla Chiesa il 1 maggio del 1991 Giovanni Paolo II, il Pontefice  venuto dall’ Est nel 1978 e che ebbe grande influenza  nella determinazione di quegli eventi,  scrisse :

“La soluzione marxista è fallita, ma permangono nel mondo fenomeni di emarginazione e di sfruttamento, specialmente nel Terzo Mondo, nonché fenomeni di alienazione umana, specialmente nei Paesi più avanzati, contro i quali si leva con fermezza la voce della Chiesa. Tante moltitudini vivono tuttora in condizioni di grande miseria materiale e morale. Il crollo del sistema comunista in tanti Paesi elimina certo un ostacolo nell’affrontare in modo adeguato e realistico questi problemi, ma non basta a risolverli. C’è anzi il rischio che si diffonda un’ideologia radicale di tipo capitalistico, la quale rifiuta perfino di prenderli in considerazione, ritenendo a priori condannato all’insuccesso ogni tentativo di affrontarli, e ne affida fideisticamente la soluzione al libero sviluppo delle forze di mercato.”

Parole profetiche che già descrivevano gli anni che sarebbero venuti e l’esplosione della povertà in tutte le zone del mondo, sottoposte alla globalizzazione della finanza internazionale ed allo strapotere del capitalismo più selvaggio, variamente camuffato,  della cui resistenza al contenimento dell’inquinamento atmosferico all’origine dell’ emergenza climatica ho scritto domenica scorsa.

Dal 9 novembre 1989 il mondo ha cercato -oggi possiamo dire invano – di rileggere se stesso attraverso categorie diverse da quelle con cui erano state interpretate la storia e la società per quasi un secolo. Un cammino che appare ancora ampiamente all’inizio e che deve fare i conti ogni giorno con l’eterno scontro  tra libertà e uguaglianza, tra nazionalismo e mondialità, tra tolleranza ed integrazione, tra stato e mercato.

Nell’aprile del  2005 trascorsi con un caro amico e maestro una settimana a Berlino, città che entrambi avevamo visitato quando ancora era divisa. Camminavamo di notte, percorrendo le strade deserte, costeggiando le sezioni  del Muro mantenute ancora per  ricordo e  monito, cercavamo di distinguere –  tra le rovine vecchie e nuove della città che più di tutte aveva segnato il confine dei nostri destini personali, delle nostre convinzioni, della nostra visione del mondo – la direzione verso cui si sarebbe  diretto ora lo “spirito del tempo”. Giunti sotto la Porta di Brandeburgo, guardammo oltre, verso il Reichstag. Nella foschia della prima alba ci illudemmo di vedere tra i primi filari di alberi del Tiergarten i due angeli di Wim Wenders, ormai scesi dal cielo e divenuti umani , incamminarsi verso quell’unica storia su cui possiamo veramente  influire: la nostra vita.

Il Parlamento italiano, con la legge n. 61 del 15 aprile 2005, ha dichiarato il 9 novembre “Giorno della libertà”, quale ricorrenza dell’abbattimento del muro di Berlino, evento simbolo per la liberazione di Paesi oppressi e auspicio di democrazia per le popolazioni tuttora soggette al totalitarismo. Anni dopo, quell’auspicio sembra essere caduto nel vuoto e nuove pietre si preparano nei cantieri dell’odio e dell’intolleranza dove, sotto la sferza di dittatori in giacca e cravatta,  soffrono –  come se nulla fosse accaduto trentadue anni fa – i nuovi schiavi della modernità dal volto bifronte.

Cos’altro dovrà ancora accadere sul Pianeta prima che qualcuno possa finalmente comporre per tutti coloro che lo abitano una “Sonata per le persone buone” ?