Portolano per rotte inedite verso lidi inesplorati – Fondato e diretto da Luigi Sanlorenzo

Società

Il mondo alla fine del mondo

Il titolo del celebre romanzo di Luis Sepulveda pubblicato nel 1988 sembra contenere e rappresentare lo stato attuale del Pianeta in questo primo quarto del XXI secolo.

Nelle dimensioni sociali di ogni livello e nello scacchiere geopolitico si susseguono sommovimenti che stanno scardinando il vecchio ordine mondiale e ribaltando tanti dei convincimenti che lo hanno ispirato e guidato.

In una lenta agonia si spengono gli ultimi sussulti del secolo breve e all’orizzonte si presentano nuvole nere pregne di tempeste perfette. Nel macro come nel microcosmo geopolitico si verifica il fenomeno più rischioso che l’ Umanità possa correre: impossibilitata a generare il nuovo e l’inedito, essa rimpiange il passato, correndo il rischio di replicarlo.

Tale considerazione ha valore nello scenario internazionale dove la rivendicazione del predominio su questo o su quel territorio ha interrotto il processo virtuoso della globalizzazione; l’idolo più invocato del nuovo millennio ed a cui forse troppo è stato sacrificato resta ora muto e non appare in grado di andare oltre la dimensione della comunicazione, peraltro insidiata costantemente dagli attacchi informatici che influenzano il sorgere di un mondo dalle mille verità seguite per spirito di appartenenza, sovente oltre ogni evidenza oggettiva.

In Europa come in Asia torna prepotentemente lo spettro dell’espansionismo imperialistico, malamente travestito da quell’ irredentismo che tanto ricorda la storia dei primi anni del secolo scorso. Con tanti saluti ai concetti a lungo declamati e poco perseguiti di un pianeta che appartiene a tutti oltre ogni confine, spesso artificiale, ereditato nei secoli e che invece ripropone confini, muri, e steccati.

“Piccole patrie” tornano ad essere invocate, identità etniche e culturali prendono il posto di quell’unica definizione di razza – umana – che Albert Einstein rivendicò al momento della propria immigrazione negli Stati Uniti. In nome di esse rinascono conflitti, sorgono dal nulla piccoli “statisti” da operetta che giocano a palla con il mondo, scoppiano nuovi e più sanguinosi conflitti che sembravano confinati nel passato e che coinvolgono popolazioni civili di ogni età,  nell’ipocrita giustificazione che l’alternativa sarebbe la guerra nucleare.

Le “potenze” di sempre  aspirano a diventare ancora più grandi, inglobando territori e persone spesso, contro la loro volontà, in un disegno egemonico che punta a far risorgere gli imperi del passato, applicandone le medesime strategie come se il mondo, nel frattempo, non avesse scoperto nuove dignità, diritti fino a ieri inimmaginabili, diversità inedite.

Davanti a tale processo di regressione, l’aggregato di nazioni più ricco di cultura dei diritti, più vicino di ogni altro all’aspirazione di un soggetto che vada oltre ogni concezione nazionalistica sembra essersi fermato in mezzo al guado.

Incapace di compiere il passo definitivo verso una piena identità politica, l’ Unione Europea si  barcamena tra gli egoismi nazionali e le aspirazioni ideali, tra i proclami in favore delle nazioni meno sviluppate e il terrore di ridurre il proprio tenore di vita per mitigarne gli effetti su clima, economia, politiche di accoglienza e di integrazione concreta degli immigrati, fenomeno quest’ultimo alla base dei processi di radicalizzazione delle seconde e terze generazioni che rivendicano spesso gli aspetti meno nobili delle proprie culture di origine.

Mentre il Continente merita sempre di più l’appellativo di “vecchio” e si rende conto della necessità di nuovi giovani per reggere il peso delle pensioni, esso appare incapace di competere con i grandi players internazionali dotati di risorse naturali immense, ancora solo parzialmente utilizzate e per lo sfruttamento delle quali non è riconosciuta alcuna delle tante misure di contenimento indicate dall’Europa. Stati Uniti e Cina non rinunceranno mai – il mai umano cioè prima dei prossimi cinquant’anni – gli uni alla mobilità individuale su cui si fonda il costume nazionale, l’altra a finanziare la grande parte del proprio sterminato territorio dove le condizioni di vita rurale sono ancora pre – moderne.

Per giustificare ciò entrambe, cui si aggiungono la Federazione Russa in occidente e l’India in oriente, alimentano un insieme di principi e valori forti che si contrappongono al pensiero debole europeo, necessaria caratteristica della società aperta come già indicava Karl Popper.

In una società tollerante, multiculturale, aperta alla diversità e che riconosce il diritto al dissenso e la necessità dell’alternanza democratica molte sono le falle aperte in cui si riversano sentimenti opposti e generati da fedi religiose fondamentaliste o dai resti cospicui di visioni autoritarie e illiberali. Anzi, al contagio portato da paesi dell’Unione quali Ungheria e Polonia, membri del cosiddetto Gruppo di Visegrad, ed cui prima o poi si aggiungerà anche l’Ucraina, porteranno presto nel cuore dell’ Europa tale visione già oggetto di studi molto seri e, peraltro, rivendicata da quelle nazioni come una variante lecita della democrazia tradizionale.

Nella presentazione del volume di Alberto Simoni “Ribelli d’Europa. Le democrazie illiberali da Visegrad all’Ucraina” pubblicato da Paesi Edizioni nel 2022, si legge: “C’è un posto nel cuore della Mitteleuropa che negli ultimi anni si è trovato al centro delle vicende politiche del Continente, un luogo simbolico dove la storia si intreccia oggi più che mai con l’attualità politica. Si chiama Visegrad. Da qui è partita la linea dura di Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia contro Bruxelles. Temi: migranti, giustizia e stato di diritto, budget e fondi europei, omosessualità, sino allo scontro sulla guerra in Ucraina. Il premier ungherese Viktor Orban – a lungo intervistato dall’autore nel saggio – guida il fronte di questi 4 Paesi che vogliono cambiare l’Ue, limitandone il raggio d’azione per custodire la sacralità della sovranità nazionale”.

Di tale “variante” sono ormai note le principali caratteristiche: il populismo, i processi costituenti e di riforma costituzionale top-down, la concentrazione del potere nelle mani dell’esecutivo, gli attacchi al potere giudiziario e alle Corti costituzionali, il potere civile contro il potere militare / il potere temporale contro potere religioso quando non connivente come in Russia, la debole tutela dei diritti fondamentali, la cultura patriarcale e il conservatorismo di genere, le discriminazioni nei confronti delle minoranze, lo stato di eccezione.

Molti di questi elementi di illiberalità già allignano nelle democrazie consolidate,  dove non pare sia altrettanto sviluppata la protezione di una democrazia costituzionale da involuzioni nel senso già indicato e sui cui si spaccano le società dei paesi europei: le classi sociali che ancora beneficiano di elevati standard di qualità della vita sono sempre più minoritarie rispetto a quello che un tempo si definiva proletariato e che oggi, tramontate le ideologie, si riconoscono in tali movimenti sempre attenti a definire se stessi “né di destra né di sinistra” cioè, ad avviso di chi scrive, essenzialmente di destra !

Messi all’angolo ormai da oltre un decennio da crisi economiche, disoccupazione, conseguenze della pandemia e perdita del potere di acquisto, le classi medie impoverite e quelle dei poveri in crescente aumento, sovente non confortate da un accettabile livello di istruzione, sono pronte a consegnarsi mani e piedi legati alle proposte politiche che meglio comprendono poiché parlano dal linguaggio comune e sono caratterizzate dalla proposta di soluzioni semplici ed immediate a problemi complessi e che richiedono processi di lunga durata. Né il disperato tentativo di ipotesi centriste potrà fare da argine. Il cosiddetto “centro” di ispirazione cristiana o laica non potrà che comportarsi come accadde in Italia nel 1922 e Germania nel 1933 quando si alleò con i fascismi illudendosi di mitigarne gli eccessi. Ne fu travolto e  fagocitato.

E i giovani ?

Nella sua più recente fatica editoriale “ Suicidio Occidentale” pubblicata da Mondadori, Federico Rampini rileva che:

«Il declino dell’Occidente è uno spettro che ci angoscia da tempo. Ora, però, succede qualcosa di nuovo: è in corso la nostra autodistruzione. L’ideologia dominante, quella che le élite diffondono nelle università, nei media, nella cultura di massa e nello spettacolo, ci impone di demolire ogni autostima, colpevolizzarci, flagellarci.

Secondo questa dittatura ideologica, non abbiamo più valori da proporre al mondo e alle nuove generazioni, abbiamo solo crimini da espiare. Questo è il suicidio occidentale. Tutto ciò che accade ai nostri confini, come la tragedia Ucraina, si spiega con questo retroscena interno: i nemici dell’Occidente sanno che ci sabotiamo da soli, rinunciando alle nostre certezze, cancellando la fiducia in noi stessi.

Altrove avanza un ordine mondiale alternativo, quello di Xi Jinping e Vladimir Putin. L’Ucraina rischia di essere solo un assaggio di quel che potranno fare. La loro analisi sul nostro declino terminale è confortata da tutti i segnali di decomposizione interna che racconto in questo libro.

L’America, stanca di avventure imperiali, stremata da troppe guerre, vede nell’isolazionismo un’opzione realistica. L’Occidente, orfano di una nazione guida, senza più certezze, deve solo sperare che i suoi avversari siano meno forti di quel che sembrano.

Le giovani generazioni schiavizzate dai social media sono manipolate dai miliardari del capitalismo digitale. Il vero potere forte del nostro tempo, questo establishment radical chic, si purifica con la catarsi del politically correct. È il modo per cancellare le proprie responsabilità: l’alleanza fra il capitalismo finanziario e Big Tech ha pianificato una globalizzazione che ha sventrato la classe operaia e impoverito il ceto medio, ha creato eserciti di decaduti. Ora quel mondo impunito si allea con le élite intellettuali e si rifà una coscienza: abbracciando la crociata per le minoranze e per l’ambiente. La questione sociale viene cancellata dall’orizzonte umano.

Non ci sono più classi, né diseguaglianze economiche, né ingiustizie di massa nell’accesso alla ricchezza. Ci sono solo «un pianeta da salvare» e un mosaico di identità etniche o sessuali da eccitare perché rivendichino quote colorate e risarcimenti.

In America questo è il Vangelo che si recita tutte le mattine nei consigli d’amministrazione delle multinazionali, dalla Silicon Valley a Wall Street; negli uffici marketing; a Hollywood e tra le celebrity milionarie dello sport. In Europa il conformismo totalitario può avere il volto seducente di Greta Thunberg e Carola Rackete. Il filo conduttore è lo stesso.

È una storia familiare per chi ricordi qualcosa degli anni Sessanta e Settanta: delle avanguardie militanti si autoeleggono a guida di un popolo che in realtà diffida di loro, perché non si sente affatto difeso dal politically correct. Ma le frange radicali di oggi non hanno bisogno di conquistare un consenso sincero e di massa; hanno imparato a corteggiare l’establishment, a fare incetta di cattedre universitarie, a occupare i media. Possono rimanere minoritarie e stravincere, imponendo dall’alto un nuovo sistema di valori. Troverete tanti accenni alla storia moderna e antica, maestra di vita. Da quella dell’Impero romano estraggo presentimenti inquietanti ma anche ragioni di conforto: seppe prolungare una dignitosa decadenza per quattro secoli; instillò rispetto e perfino un timore reverenziale negli avversari che lo prendevano d’assalto. Perciò queste pagine possono essere anche lette in controluce. Oltre a decifrare l’attacco finale sferrato all’Occidente dal suo interno, vi propongo qualche speranza di sopravvivenza.

In questo libro ho raccolto le prove che il decadimento viene da lontano. La destra e la sinistra vi hanno contribuito generosamente. Le derive estremiste hanno deformato ambedue gli schieramenti: la destra moderata è quasi invisibile, la sinistra ragionevole è intimidita dai radicali. La certezza con cui attribuiamo tutta la colpa alla parte politica avversa è uno dei sintomi di una comunità malata.

Per una crudele ironia della sorte, proprio quegli europei che più disprezzano l’America oggi ne stanno importando i peggiori difetti in casa propria: dalla censura politically correct nelle università inglesi all’odio per l’Occidente di Carola Rackete, all’ambientalismo pauperistico e antiscientifico di Greta Thunberg.

Ma l’America resta oggi il laboratorio del suicidio occidentale, per una ragione che distingue questa crisi da tutti gli episodi precedenti. Stavolta, quei pezzi di cultura radicale che demonizzano e demoliscono ogni valore dell’Occidente sono cooptati nell’establishment. Mai in passato c’era stato un allineamento così totale fra la cultura antioccidentale e i poteri forti del capitalismo, della cultura, dei media, dell’industria dell’entertainment.

L’Europa insegue e cerca di adeguarsi, l’America è all’avanguardia. Black Lives Matter e la colpevolizzazione dei bianchi, l’esaltazione di tutte le minoranze etniche o sessuali, il neopuritanesimo, l’ambientalismo apocalittico, tutti questi movimenti sono sostenuti dai miliardari progressisti e dalle caste privilegiate del capitalismo digitale, dalle élite che siedono nei consigli d’amministrazione, che guidano le università, le case editrici, i media, il business del cinema e della musica. Nelle crisi precedenti del modello americano, le forze che tentavano l’assalto erano antisistema; oggi è «il Sistema» ad aver deciso di perpetuare il proprio potere abbracciando le ideologie antioccidentali.

Ritorno al confronto inevitabile con l’Impero romano per sottolineare una differenza in questo tramonto di civiltà. Quando cominciò quella rivoluzione dall’alto che avrebbe imposto al popolo un’«inversione valoriale» – l’abbandono di tutte le regole del mondo pagano sostituite da controregole cristiane –, l’imperatore Costantino ebbe cura di non demolire la memoria di Roma.

Il passato dell’impero, le sue realizzazioni e le sue conquiste, erano beni preziosi e non andavano diffamati. L’imperatore convertito al cristianesimo non trasformava in criminali o demoni i suoi predecessori, anzi, si ergeva a continuatore di una storia nobile e illustre. Anche per questo l’impero durò altri centoquarant’anni prima di esalare il respiro finale.

Nell’attuale suicidio dell’Occidente, invece, «l’inversione valoriale» non salva proprio nulla, la furia della distruzione del nostro passato è accecante. L’Occidente-caricatura come viene insegnato oggi nelle università di élite americane, inglesi, e presto europee, è solo una fabbrica di genocidi, una mostruosa fucina di ingiustizie e di sofferenze, che ha soggiogato, sfruttato e violentato l’umanità intera (tutta santa e innocente salvo i bianchi), oltre ad aver dilapidato le risorse naturali del pianeta.”

Fin qui la sentenza spietata di Rampini che sembra riecheggiare il classico di Edward Gibbon del 1776 intitolato “Storia della decadenza e caduta dell’impero romano”. Nel Capitolo 38, in un paragrafo chiamato “Osservazioni generali sulla caduta dell’Impero romano in Occidente” Gibbon elenca una serie di cause che portarono al declino e alla caduta dell’Impero romano d’Occidente:

“… la decadenza di Roma fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza… Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo. Le legioni vittoriose, che in guerre lontane avevano appreso i vizi degli stranieri e dei mercenari, … il vigore del governo militare fu indebolito e alla fine abbattuto dalle istituzioni parziali di Costantino, e il mondo romano fu sommerso da un’ondata di barbari. Spesso la decadenza di Roma è stata attribuita al trasferimento della sede dell’Impero […]. Tale pericolosa novità ridusse la forza e fomentò i vizi di un duplice regno… Sotto i regni successivi l’alleanza tra i due imperi fu ristabilita, ma l’aiuto dei Romani d’Oriente era tardivo, lento e inefficace […].”

Ma da discepolo fedele di Voltaire, Gibbon identificava nel Cristianesimo la causa prima della crisi dell’Impero:

“…l’introduzione, o quanto meno l’abuso, del cristianesimo ebbe una certa influenza sulla decadenza e caduta dell’Impero romano. Il clero predicava con successo la pazienza e la pusillanimità. Venivano scoraggiate le virtù attive della società, e gli ultimi resti di spirito militare finirono sepolti nel chiostro. […] la Chiesa e persino lo stato furono sconvolti dalle fazioni religiose […]; il mondo romano fu oppresso da una nuova specie di tirannia, e le sette perseguitate divennero i nemici segreti del paese. … Se la decadenza dell’Impero romano fu affrettata dalla conversione di Costantino, la sua religione vittoriosa attenuò la violenza della caduta e addolcì l’indole crudele dei conquistatori”.

Una lezione poi ripresa da Oswald Spengler ne “Il tramonto dell’Occidente” del 1922 e da Samuel P.Huntington nell’opera del 1996 “Lo scontro delle Civiltà e il nuovo ordine mondiale” a cui Rampini ha attinto molto e dove si legge:

“Le civiltà attraversano un ciclo naturale di sviluppo, fioritura e decadenza, e che l’Europa, vittima di un angusto materialismo e del caos urbano, si trovava nell’ultimo stadio, l’inverno di un mondo che aveva conosciuto stagioni più fruttuose”

Lo sviluppo storico, secondo Spengler, non andava visto nell’ottica illuminista del progresso, ma al pari delle scienze naturali, come lo sviluppo delle grandi civiltà (nascita, apogeo, declino); le società si sviluppano portando in sé valori assoluti, che assumono invece un carattere relativo al di fuori. È proprio il decadimento di questi valori all’origine del declino occidentale. L’Europa, a meno di riuscire a purificarsi e ripristinare i propri valori spirituali e il ceppo originario, sarebbe caduta preda di politiche selvagge e di guerre di annientamento come di fatto, nonostante le critiche ricevute dal mondo culturale di allora – da Thomas Mann a Max Weber – sarebbe poi avvenuto.

Per Samuel P. Huntington, nell’opera già citata:

“La fine dell’ordine internazionale bipolare (“guerra fredda”) conseguita alla crisi e alla dissoluzione dell’Unione Sovietica non ha dato luogo ad un mondo più unito ed armonico, ma alla creazione (o al riemergere) di linee di divisione fra i paesi che ricalcano le linee di confine di quei raggruppamenti umani di lenta formazione e lunga durata che sono le civiltà. La mia ipotesi è che la fonte di conflitto fondamentale nel nuovo mondo in cui viviamo non sarà sostanzialmente né ideologica né economica. Le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura. Gli Stati nazionali rimarranno gli attori principali nel contesto mondiale, ma i conflitti più importanti avranno luogo tra nazioni e gruppi di diverse civiltà. Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale. Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro.”

Ho voluto iniziare a trattare con la dovuta cautela e la necessaria sintesi giornalistica  questo argomento di assoluta centralità nella nostra attualità – compreso il proditorio assassinio dell’ex premier giapponese Shinzo Abe, da sempre fiero avversario dell’espansionismo cinese – anche con riferimento a vicende nazionali e locali, nella consapevolezza che la sopravvivenza della società aperta ripone le proprie ultime speranze in una “correzione del tiro” rispetto alle analisi di Karl Popper  (1945) – su cui mi ripropongo di tornare ancora sulle pagine de Lo Spessore, i cui lettori saluto con questo articolo della domenica, dopo qualche mese di assenza – concludendo con le sue parole, tratte dal capitolo Conoscenza oggettiva in “La teoria del pensiero oggettivo” Armando Editore, 1975:

“Evitare errori è un ideale meschino. Se non osiamo affrontare problemi che sono così difficili da rendere l’errore quasi inevitabile, non vi sarà allora sviluppo della conoscenza. In effetti, è dalle nostre teorie più ardite, incluse quelle che sono erronee, che noi impariamo di più. Nessuno può evitare di fare errori; la cosa grande è imparare da essi.”