Dialoghi infernali di ieri e di oggi
Nell’ inesausto tentativo della grande letteratura europea di decifrare il potere e il demone che, con il consenso dell’interessato, ne scatena il delirio di onnipotenza, un posto speciale tocca al “Doctor Faustus” di Thomas Mann.
L’opera, dipinta sulla grande tela della Germania nazista nel precipizio della Seconda Guerra Mondiale, riprende la tradizione del patto con il Male già presente nel Faust di Goethe e in musica nel Don Giovanni di Mozart, portandone i temi nella scottante attualità di quegli anni che tornano ad essere ora anche i nostri.
Pubblicato nel 1947, il romanzo è l’ultima grande opera letteraria dedicata al mito di Faust. Se, di questa fortunata e illustre tradizione, il monumentale capolavoro di Goethe costituisce il vertice massimo, irraggiungibile, ineguagliabile e “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov https://www.nuoviapprodi.it/conoscere-lanima-russa-il-maestro-e-margherita-di-michail-bulgakov/ l’esito più sorprendente nella sua incontenibile e travolgente energia tragicomica, il “Doctor Faustus” di Mann rappresenta davvero, artisticamente oltreché cronologicamente, l’approdo ultimo, conclusivo, vero e proprio «libro della fine», come lo definisce Hans Mayer.
A renderlo tale è il momento storico nel quale viene concepito, scritto e ambientato, il momento più oscuro della storia della patria di Faust e del suo mito, quello segnato dal regime nazista, nella continua – strutturale di fatto – oscillazione di due piani temporali: quello in cui il narratore, l’umanista settembriniano Serenus Zeitblom, vive, la rovinosa e drammatica fase discendente della vertiginosa parabola della Germania nazista, che si avvia a schiantarsi e frantumarsi, e quello di cui racconta, nella ricostruzione della biografia del geniale compositore Adrian Leverkühn.
A differenza de “La Montagna Incantata” in cui l’anima di Hans Castorp è disputata tra l’umanista Settembrini e l’anarchico Naphta e alla fine trova una qualche salvezza, nel Doctor Faustus non c’è spazio per la redenzione.
La freddezza e l’indifferenza, l’una indissolubilmente legata all’altra, sono i due tratti caratteriali distintivi di Adrian Leverkühn, sottolineati subito dal diligente Serenus Zeitblom, suo amico d’infanzia, in apertura della biografia:
“La sua indifferenza era tale che raramente s’accorgeva di ciò che accadeva intorno a lui, della società nella quale si trovava, e siccome molto di rado chiamava per nome la persona con la quale stava discorrendo, mi vien fatto di supporre che il nome non lo sapesse nemmeno, mentre l’altro aveva certo ogni diritto di presumere il contrario. Vorrei paragonare la sua solitudine a un abisso nel quale sprofondavano, in silenzio e senza lasciar traccia, i sentimenti che gli altri nutrivano per lui. Intorno a lui era il gelo”
Già da queste poche righe iniziali emerge tutta la singolarità della personalità del protagonista, uomo del distacco, della distanza, asettico quasi nel modo di rapportarsi ai propri simili, anaffettivo, gelido, ghiacciato come le acque dell’infernale lago di Cocito in cui Dante colloca la dimora di Lucifero.
Della propria freddezza e della propria indifferenza Leverkühn, che si distingue per la capacità di sondare, indagare a fondo se stesso con sguardo critico, è perfettamente consapevole, come emerge da un importante documento, una lettera indirizzata al suo maestro musicale, Wendell Kretzschmar, che lo esorta a lasciare la teologia per dedicarsi completamente, a tempo pieno alla musica:
«Temo, caro amico e maestro […] di essere cattivo perché non ho calore. Dice, è vero, che sono maledetti e respinti coloro che non sono né caldi né freddi, ma soltanto tiepidi. Non direi di essere tiepido; sono decisamente freddo» (p.148).
La freddezza priva Leverkühn di quella robusta ingenuità che egli individua quale principale qualità dell’artista, sostituita da un’intelligenza rapida a saturarsi e dalla disposizione alla noia, alla stanchezza e alla nausea, accompagnata dalla cronica emicrania, fastidiosa eredità paterna.
Al suo arrivo a Lipsia Leverkühn è vittima di un buffo incidente che avrà conseguenze enormi, inimmaginabili. Un facchino lo conduce, contro la sua volontà, in un postribolo, dal quale fugge inorridito dopo il contatto con una prostituta:
«Nascondendo la mia agitazione mi vedo davanti un pianoforte aperto, un amico, mi avvicino e senza sedermi tocco due o tre accordi, rammento benissimo quali, perché la mia mente si occupava proprio di quel fenomeno sonoro: era la modulazione dal si maggiore al do maggiore, lo stacco rischiarante d’un semitono come nella preghiera dell’eremita nel finale del Franco cacciatore, all’entrata di timpano, trombe e oboi sull’accordo in do di quarta e sesta. Lo so per averci pensato dopo, in quel momento non lo sapevo, e mi limitai a toccare gli accordi. Allora mi viene vicino una brunetta in giubbetto spagnolo, con la bocca larga, il naso schiacciato e gli occhi a mandorla, un’esmeralda che col braccio mi accarezza la guancia. Io mi volto, respingo lo sgabello col ginocchio e ripercorrendo il tappeto attraverso l’inferno di voluttà, davanti alla ruffiana, raggiungo l’anticamera e scendo nella strada senza neanche toccare il passamano d’ottone» (p.162).
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È sul suolo italiano, nel paese di Palestrina, luogo d’origine del celebre compositore rinascimentale Giovanni Pierluigi, che avviene il fatidico e atteso incontro tra Leverkühn e il diavolo. Un diavolo multiforme, dal quale emana un freddo insopportabile persino per il protagonista, che deve imbacuccarsi per bene per poter sostenere il colloquio e non lasciarsi irretire dal gelo, e che si caratterizza per una malignità sconosciuta all’ironico e sconfitto Mefistofele goethiano e al misericordioso Woland bulgakoviano.
«Dite continuamente cose che sono in me e provengono da me, non già da voi» (261), obietta subito Leverkühn, come suo solito diffidente e distaccato.
Un’obiezione molto dostoevakiana: ne “I demoni” Stavrogin, confessa di avere certe allucinazioni, di essere in contatto con un «essere maligno, beffardo e ragionevole», multiforme come il diavolo manniano peraltro, concludendo infine: «Sono tutte sciocchezze, terribili sciocchezze. Sono io stesso sotto varie forme e niente di più» ; sulla stessa scia un altro celebre nichilista creato da Dostoevskij, l’ultimo Ivan Karamazov che, faccia a faccia con il proprio diavolo, esclama: «Ci sono momenti in cui non ti vedo e non ti sento, ma intuisco sempre quello che vai cianciando, perché sono io, io stesso che parlo, e non tu!» .
La malattia venerea contratta da Leverkühn attraverso il rapporto sessuale con la sua sventurata Esmeralda è il centro di tutto. Ora, la malattia, insieme con il suo opposto, la salute – i due termini potrebbero essere considerati come un unico termine, in quanto senza l’uno non può esistere l’altro – si impone come uno dei temi dominanti della letteratura e della filosofia primonovecentesche.
Attraverso il ricorso alla malattia il diavolo manniano coglie l’essenza dello sconvolgimento artistico, letterario, filosofico, musicale a trazione espressionista che caratterizza i primi anni del XX secolo, e di cui Schönberg, modello musicale per Leverkühn, si impone come uno dei più significativi esponenti. La malattia è garanzia di una creazione artistica alternativa, nuova, inaudita, e anche questo il diavolo dona al protagonista, oltre al tempo, oltre alla clessidra, insieme ad essa.
Il diavolo spiega a Leverkühn come la sua apparizione non sia frutto della malattia, ma possibile grazie alla malattia, configurandosi come una sorta di medium, e pubblicizza la propria ispirazione, ben più immediata ed entusiasmante dell’ispirazione elargita dall’alto:
“Un’ispirazione davvero beatificante, credente senza dubbi e tale da rapire, – un’ispirazione nella quale non c’è scelta, non c’è modo di migliorare e ritoccare, ma tutto è concepito come una vasta imposizione, mentre il passo si arresta e sublimi brividi scuotono il soggetto da capo a piedi e un fiume di lacrime di felicità erompe dai suoi occhi, – non è possibile con Dio, il quale lascia troppo da fare all’intelligenza, ma è possibile soltanto col diavolo, col vero signore degli entusiasmi” (p. 275).
Il diavolo lusinga il ritroso e diffidente Leverkühn, non avrà certo il fascino esotico e sensuale di Esmeralda, ma le garanzie offerte dalla ditta infernale sono comunque allettanti:
“Noi ti garantiamo l’efficacia vitale di ciò che compirai col nostro aiuto. Tu sarai guida, tu segnerai il cammino dell’avvenire, nel nome tuo giureranno i ragazzi che, grazie alla tua follia, non avranno più bisogno di essere folli. Della tua follia si nutriranno in piena salute, e in loro tu diventerai sano” (p.281).
Il diavolo garantisce a Leverkühn una follia creatrice che gli permetterà di raggiungere una gloria monumentale, di ergersi a supremo emblema artistico del proprio tempo, dispensatore di salute, in una prospettiva futura luminosa che stride clamorosamente con il drammatico avvenire storico della Germania, regno del terrore e di una violenza cieca, senza precedenti nella sua gelida sistematicità.
Ma Leverkühn non si entusiasma, ciò che gli interessa, attenzione, non spaventa – nella sua natura di dissacrante speculatore ( il suo lato nietzschiano) – più delle lusinghiere e gloriose prospettive terrene, sono le inquietanti prospettive ultraterrene.
E il diavolo esaudisce la sua curiosità, descrivendo così il regno infernale, luogo umanamente impensabile e indefinibile, nei confronti del quale la lingua mostra tutti i propri limiti:
“Non è facile parlarne: voglio dire, a rigore non si può parlarne in nessuna maniera, perché la realtà non è congruente con le parole. Si possono certo dire e usare molte parole, ma tutte sono soltanto sostituzioni, stanno per nomi che non esistono. Non possono avere la pretesa di dire ciò che non si può mai descrivere o enunciare con parole.
Questa è precisamente la gioia segreta, la sicurezza dell’inferno: che non è enunciabile, che è salva dal linguaggio, che esiste semplicemente, ma non la si può mettere nel giornale, non la si può rendere pubblica, non se ne può dare una nozione critica con parole, perché le parole “sotterraneo”, “cantina”, “mura spesse”, “silenzio”, “oblio”, “mancanza di salvezza” sono soltanto deboli simboli.
Di simboli, mio caro, bisogna accontentarsi quando si parla dell’inferno, perché là tutto finisce, non solo la parola indicatrice, ma tutto, tutto… anzi questo è il principale punto caratteristico e ciò che se ne può dire sulle generali, ed è nello stesso tempo ciò che il nuovo arrivato vi apprende per prima cosa, ciò che da principio non riesce ad afferrare e non può comprendere coi suoi sensi, diremo così, sani; perché la ragione o qualsivoglia limitata comprensione glielo impedisce, perché, insomma, è incredibile, talmente incredibile da far impallidire, incredibile per quanto chi arriva se lo senta dire fin dall’inizio come un saluto e in forma concisa e decisa, che “là tutto finisce”, ogni pietà, ogni grazia, ogni riguardo e fino all’ultima traccia di comprensione per l’obiezione incredula e scongiurante “Questo voi potete, eppure non potete fare di un’anima?”.
“E invece sì – prosegue il diavolo – lo si fa e avviene senza il controllo della parola, in cantine afone, laggiù in fondo dove Dio non ode, e per tutta l’eternità. Ecco, è male parlarne, sono cose che stanno lontano e fuori del linguaggio, il quale non ha niente a che vedere con tutto ciò, non ha alcun rapporto e pertanto non sa neanche quale forma temporale debba applicarvi, e quindi non ha di meglio che ricorrere al futuro quando dice: “Là saranno pianti e strida di dannati”. Va bene, queste sono parole scelte da una zona piuttosto estrema della lingua, ma pur sempre simboli debolucci e senza alcun rapporto con ciò che “sarà”… incontrollato, nell’oblio, fra spesse mura. È ben vero che nella chiusura ermetica a tutti i suoni il rumore sarà grande, smisurato e tale da stordire da lontano a furia di urli e gemiti, grida e brontolii, strida e insulti, implorazioni e lamenti, rimbrotti e schianti, di modo che nessuno udirà il proprio strepito, perché esso sarà soffocato nel fragore generale, nel fitto giubilo infernale e negli urli dei dannati, causati dalla perpetua ingiunzione dell’incredibile e dell’irresponsabile.
Laggiù i dannati si mangiano la lingua dal dolore, ma non per questo formano una comunità; provano invece disprezzo reciproco e tra gli urli di dolore e i sospiri si scambiano le più sconce villanie, e i più raffinati e orgogliosi, quelli che non hanno mai pronunciato una parola volgare, sono costretti a usare le più sudice. Una parte dei loro tormenti e del loro scandaloso piacere consiste nell’escogitare gli insulti più lerci” (pp. 283-284).
Ecco, Leverkühn non sembra avere la possibilità di scegliere, di rifiutare magari la proposta, il suo destino appare segnato e, in tal senso, l’incontro con il diavolo si configura piuttosto come una burocratica formalità. Diavolo che infine stabilisce benefici e condizioni, diritti e doveri, i punti essenziali del patto:
«Tempo hai preso da noi, tempo geniale, tempo esaltante, ben ventiquattro anni ab dato recessi, che ti fissiamo come ultimo termine. Quando saranno passati e trascorsi, e sarà un’epoca lontana, e anche se un tempo così è un’eternità, ti verremo a prendere. Per contro ti vogliamo essere in questo frattempo sottomessi e obbedienti, e l’inferno ti sarà propizio, purché tu abrenunzii a tutti quelli che vivono, a tutto l’esercito celeste e a tutti gli uomini, poiché così dev’essere» (p.287).
Ma la condizione più dura, dolorosa, estenuante, esasperante, disumana in una sola parola, è la seguente:
“A noi tu, creatura fine e creata, sei promesso e fidanzato. A te non è lecito amare” (p.287).
È questa la condizione che rende il diavolo di Mann il più malvagio dell’intera tradizione letteraria ispirata al mito di Faust: se il Mefistofele di Goethe permette al protagonista di godere dell’amore di Margherita prima e di Elena poi, che rappresentano i due più grandi servizi resi al protagonista in cambio della sua anima, comunque salva al termine dell’opera, e se il Woland di Bulgakov ricongiunge il Maestro e Margherita, unendoli persino per l’eternità, il diavolo innominato del Doctor Faustus priva Leverkühn di quell’amore nel segno del quale è stata sancita la loro unione. Esmeralda resterà la prima e l’ultima. Solo una puttana sifilitica ad Adrian Leverkühn è stato concesso amare. Un prezzo altissimo, forse sproporzionato, anche per una merce dal valore enorme come il tempo geniale.
«L’amore ti è vietato in quanto riscalda. La tua vita dev’essere fredda, perciò non devi amare alcuna creatura umana. […] Freddo ti vogliamo, tanto freddo che le fiamme della produzione basteranno appena a scaldarti. In esse ti rifugerai dal gelo della tua vita…» (p.288).
Leverkühn, come sottolinea lui stesso, in questa alternanza di caldo e freddo è destinato a vivere già in questa vita terrena il castigo che lo attenderà dopo la morte. Tirarsi indietro non è più possibile, anzi, non c’è mai stato un momento in cui fosse possibile dire no, rifiutare, voltare le spalle e andare via. Accade ciò che doveva accadere, ciò per cui Leverkühn, nella mente di Mann, è stato creato. Tutto ciò che accade è inevitabile e irreparabile.
Come Stavrogin, Leverkühn non ha voluto essere soltanto tiepido, a differenza di Hans Castorp ha rifiutato l’ideale umanistico dell’aurea mediocritas, e se questo rifiuto può talvolta condurre a Dio, la maggior parte delle volte conduce al diavolo.
Per avverse vicende, Leverkühn viene privato del conforto coniugale e di quello amicale di Schwerdtfeger; il suo affetto si rivolge allora tutto all’angelico Nepomuk, figlio di sua sorella Ursel, ma il diavolo non risparmia neppure il piccolo.
No, un diavolo così crudele non è mai esistito nella storia della letteratura, e ciò insinua il sospetto che esso sia solo il frutto della follia di Leverkühn, un sospetto che Mann non smentisce mai nel corso del romanzo, ed è questo, proprio questo uno dei motivi della grandezza del Doctor Faustus.
Oramai prossimo alla fine della sua «vita spirituale», Leverkühn riunisce i conoscenti a Pfeiffering. Intende far ascoltare loro alcuni passi dell’ultima grandiosa creazione, la “Lamentatio Doctoris Fausti” eseguendoli al pianoforte, ma prima si lancia in un delirante monologo in cui confessa all’uditorio il suo patto con il diavolo.
Leverkühn è ormai vittima della follia (tra i tanti spropositi, sostiene che Nepomuk sia il frutto della sua unione con la sirena Ifialta), e dopo aver terminato il monologo, scandaloso per molti dei presenti, alcuni dei quali sono persino fuggiti, indignati e inorriditi, si accomoda al pianoforte per iniziare finalmente la tanto attesa esecuzione, ma precipita di colpo a terra. La sua «vita spirituale» ha fine in questo preciso istante.
Vittima, come il suo modello filosofico, Nietzsche, della malattia mentale, Leverkühn regredisce ad uno stato infantile, torna al grembo materno, «dopo aver descritto un arco vertiginoso sopra il mondo» (p.573). Viene ricondotto a Buchel, nella casa d’infanzia, e qui muore, nel 1940, a cinquantacinque anni, quando la
“Germania, coi pomelli accesi, traballava […] al colmo dei suoi orrendi trionfi, in procinto di conquistare il mondo in virtù del solo trattato ch’era disposta a osservare e che aveva firmato col sangue. Oggi, avvinghiata dai demoni, coprendosi un occhio con la mano e fissando l’orrore con l’altro, precipita di disperazione in disperazione. Quando toccherà il fondo dell’abisso? Quando sorgerà dall’estrema disperazione, pari a un miracolo superiore a ogni fede, il nuovo crepuscolo di una speranza? Un uomo solitario giunge le mani e invoca: Dio sia clemente alle vostre povere anime, o amico, o patria!” (p.577).
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Sono queste le righe conclusive del “Doctor Faustus” in cui torna e s’imprime l’immagine del dannato michelangiolesco che si copre un occhio e viene trascinato giù dai demoni. Ricorrendo a questo personaggio, Mann fornisce la rappresentazione artistica più efficace della Germania nazista sconfitta.
In questo epilogo i due piani temporali oscillanti nel corso del romanzo si incontrano, nei destini di dannazione di Leverkühn e della sua patria. Perché anche la Germania ha stipulato il suo patto con il diavolo: ipotesi fascinosa e, soprattutto, consolante, perché l’orrore nazista fu il frutto di un accordo tutto umano, in cui i colpevoli non sono da ricercare solo tra i gerarchi nazisti. Il popolo tedesco, come ha dichiarato Primo Levi, di resistere ad essi neppure ha tentato:
“Nella Germania di Hitler era diffuso un galateo particolare: chi sapeva non parlava, chi non sapeva non faceva domande, a chi faceva domande non si rispondeva. In questo modo il cittadino tedesco tipico conquistava e difendeva la sua ignoranza, che gli appariva una giustificazione sufficiente della sua adesione al nazismo: chiudendosi la bocca, gli occhi e le orecchie, egli si costruiva l’illusione di non essere a conoscenza, e quindi di non essere complice, di quanto avveniva davanti alla sua porta.
Chiudendosi la bocca, gli occhi e le orecchie: ma la vita riserva un giorno del giudizio a tutti gli uomini, prima o poi, e allora, quando si è chiamati a fare i conti, a tirare le somme, non ci si può più tirare indietro, non si può dire io non sapevo, non è permesso, e solo un occhio ci si può coprire, uno solo, mentre si viene trascinati giù, nell’orrore della complicità, della responsabilità, della colpevolezza.”
Una lezione che ora il popolo russo, condotto al macello sociale ed economico interno e internazionale in nome di un patto diabolico tra il proprio leader e la memoria allucinata di un destino imperiale che egli assume a propria giustificazione e quale irrinunciabile missione, dovrà presto apprendere quando il velo di propaganda – e di cospicui interessi di pochi – che nasconde ai più il volto del loro autocrate si squarcerà, lasciando vedere in tutto il suo “orrore” la lebbra di cui egli è cosparso.