Desiata, il romanzo corale di Antonella Marascia
«Mi chiamo Desiderata, intesa Desìata.
Sono la figlia di don Turi Tramontana e donna Nina, sono la moglie di Vanni, la madre di Turiddu, la nuora di Giovanna, la cognata di Filippo, la figlioccia di Antonio.
In tanti hanno provato a raccontare la mia storia, l’ha fatto pure Maria che non mi conosceva ma che è uscita di senno quando mi hanno ammazzata.
Adesso tocca a me…»
Un romanzo corale, una tragedia senza tempo con un coro potente su cui spirano i venti favorevoli e contrari delle passioni umane.
Se bastasse questa sintesi, il lettore potrebbe chiedersi come sia possibile che un romanzo come “Desiata” possa essere al tempo stesso la storia di una donna e quella di un’intera comunità e del territorio in cui vive.
Eppure, l’opera prima di Antonella Marascia, concepita in decenni e finalmente espressa come un parto liberatorio, riesce ad essere tutto questo e molto altro ancora. Vi convivono memorie e racconti, esperienze ed emozioni, sentimenti e carnalità, indagini su fatti realmente accaduti e ricostruzioni puntuali che l’autrice ha ricamato in una trama che affascina ed appassiona, intessuta com’è tra i venti di una terra che è anche mare, di una costa che è anche orizzonte.
Sul piano letterario “Desiata” può collocarsi tra “I Malavoglia” di Giovanni Verga per le connotazioni veristiche che il testo presenta, “Canne al vento” di Grazia Deledda (Premio Nobel per la Letteratura 1926) per l’analisi spietata della condizione femminile che la scrittrice sarda ne fece già un secolo fa e “Ulisse” di James Joyce con specifico riferimento al monologo di Molly Bloom, un flusso incessante di idee, memorie, sensazioni, percezioni che scorrono liberamente e senza pause o cesure, proprio come fanno i pensieri nella mente umana e che fu il primo e scandaloso esempio di narrazione dell’interiorità femminile. Due autori e un’autrice non a caso profondamente isolani come lo è Marascia nella sua dichiarata e praticata appartenenza alla propria terra e al mare che la lambisce.
Nel romanzo l’espediente letterario di affidare versioni del medesimo racconto alla narrazione di più soggetti che intervengono nella vicenda restituisce una dimensione da teatro greco in cui dal coro, vero protagonista della scena, si staccano di volta in volta, come se facessero un passo in avanti, la vittima, il padre, la madre, i fratelli ma anche il carnefice, la sua famiglia, la sua amante, i suoi amici, gli inquirenti, fino al grido straziante della giovane che smarrisce la ragione dopo aver appreso della tragedia di Desiata.
Ciascuno racconta la propria interpretazione dei fatti che l’autrice lascia fluire senza giudicare, giustificare, condannare, quasi a com-piangere con essi poiché vittime tutte di venti favorevoli o contrari che spirano su quel mare il cui orizzonte è l’Africa e su quel porto-canale dove i pescherecci dei novelli “Malavoglia” mazaresi, si rifugiano al sicuro dalle mareggiate ma non del vento Marrobbio che, impetuoso ed imprevedibile, ne risale il corso, seminando distruzione.
Il romanzo della Marascia è racconto potente della forza dei sentimenti che come i venti governano la rotta e il destino di tutti i personaggi tra cui giganteggia il padre di Desiata, Turi Tramontana, icona del capo-barca responsabile di ogni membro dell’equipaggio che assume su di sé le ragioni della figlia, difendendone – contro ogni conformismo del tempo – il diritto di abbandonare il marito-padrone e la libertà di rifarsi una vita.
Ma “Desiata” è soprattutto elegia di matriarche nero vestite come sovente nel Sud, che rivendicano la propria identità culturale e sessuale contro ogni edulcorato tentativo di nasconderne gli aspetti più aspri e carnali.
Donne maghe che, per richiamare il testo di Erica Jong di cinquanta anni fa, non hanno paura di volare ma si abbandonano al vento delle passioni senza dare ascolto all’invito conformista di esercitare quel “buon senso” spesso figlio della paura di cambiare persone, ambienti, abitudini rassicuranti anche se pagate a caro prezzo con pezzi di libertà e di identità.
“Desiata”, dunque, non è solo il racconto di un femminicidio, ciascuno drammatico a proprio modo, ma del contesto in cui esso può maturare e, pur non assolvendo il responsabile materiale del delitto, l’autrice dà conto di culture, pregiudizi, conformismo e soprattutto alla colpevole e profonda ignoranza che gli uomini hanno della complessa interiorità femminile regolata da venti impetuosi che ne agitano costantemente ogni fase della vita donando loro in cambio una specifica fertilità psicologica che, una volta rimossi gli ostacoli culturali, ne garantisce il raggiungimento di risultati straordinari in ogni settore.
Un’indicazione socio-antropologica che Marascia consegna soprattutto al lettore maschio come parte di un’inedita educazione sentimentale che, ben oltre il banale meccanicismo dell’educazione sessuale, troppo a lungo è stata trascurata dalle famiglie e dalle altre agenzie educative.