Portolano per rotte inedite verso lidi inesplorati – Fondato e diretto da Luigi Sanlorenzo

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Antologia beat. Lawrence Ferlinghetti, il Prevert d’America che amava la tenerezza

«Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati»
«Dove andiamo?»
«Non lo so, ma dobbiamo andare»

Così esordiva Jack Kerouac settant’anni fa nelle prime pagine di “On the road”, il libro cult che avrebbe segnato la vita di due generazioni e rappresentato per la gioventù occidentale forse il più significativo riferimento per quel cambiamento che si rendeva necessario dopo l’irregimentazione giovanile subita dalla generazione dei propri padri sotto i regimi totalitari europei ed asiatici o il conformismo bacchettone che connotava gli Stati Uniti da Boston a Los Angeles, da Juneau a Tallahassee, passando per Chicago.

Nel 1951 e negli anni successivi, chi negli Stati Uniti aveva poco più 25 anni aveva probabilmente preso parte agli ultimi anni di guerra in Europa o nel Pacifico; era stato testimone consapevole dell’esplosione nucleare che aveva raso al suolo Hiroshima e Nagasaki; respirava l’aria della Guerra Fredda; viveva i rigori del Maccartismo che con scientificità stava decapitando un’intera generazione di intellettuali americani in nome dell’anticomunismo che trovava in J. Edgar Hoover – padre del Federal Bureau of Investigation – il proprio Savonarola.

Un’epoca che Eleanor Roosevelt ebbe a definire come «una vera e propria ondata di fascismo, la più violenta e dannosa che questo Paese abbia mai avuto». Chissà cosa avrebbe detto di Donald Trump e dei suoi appelli eversivi ai proud boys culminati nell’attacco al Campidoglio.

Molti giovani americani stavano per andare a combattere in Corea e diventare protagonisti inconsapevoli di quel mondo impazzito e contraddittorio che dieci anni dopo sarebbe stato descritto dal romanzo “Comma 22” di Joseph Heller, poi divenuto film di successo nel 1970 proprio mentre i loro fratelli più giovani, in larga parte neri o ispano americani, scrivevano in Vietnam la cronaca di quei giorni, raccontata ogni sera sugli schermi in bianco e nero di ogni parte del mondo.

Quelli che restavano in patria si dividevano tra il culto dei Marines, i film con John Wayne, l’ultimo Ronald Reagan e il secondo e più inquietante Alfred Hitchcock. Gli amori frettolosi consumati sui sedili posteriori di Buick o di Oldsmobile nei parcheggi dei cinema drive-in o iniziavano lunghi e devastanti percorsi nevrotici di auto distruzione, abbracciando jukebox all’idrogeno.

«Ho visto le migliori menti della mia generazione
distrutte dalla pazzia, affamate, nude e isteriche
trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa
hipster dal capo d’angelo ardenti per l’antico contatto celeste
con la dinamo stellata nel macchinario della notte».

Così urlava il poeta Allen Ginsberg nella Six Gallery di San Francisco il 13 ottobre del 1955 ma nell’Italia della censura democristiana e pudibonda sarebbe stato tradotto e pubblicato soltanto undici anni dopo perché considerato osceno da uno Stato bigotto che ancora in quell’anno legittimava le case di tolleranza: sarebbero state soppresse tre anni dopo dalla senatrice socialista Lina Merlin, tra i timori di Pietro Nenni, preoccupato per l’eventuale perdita di consenso da parte di un popolo che nei casini aveva celebrato riti di passaggio e ricorrenze di ogni genere.

C’era una volta la Beat Generation i cui principali esponenti furono Jack Kerouac, Lucien Carr, Allen Ginsbeg, William S. Burroughs, Gregory Corso, Neal Cassidy, Charles Bukosky, Norman Mailer e, quale mentore, il più anziano Lawrence Ferlinghetti, scomparso martedì scorso all’età di centouno anni. Il sindaco di San Francisco aveva dichiarato al compimento dei cent’anni dalla data natale, il 24 marzo “Lawrence Ferlinghetti Day.”

Pittore, scrittore, libraio, talvolta ospite delle carceri californiane, Ferlinghetti fondò la propria casa editrice situata a suo tempo in Columbus Avenue 261, all’angolo con Broadway Street, nel quartiere italiano di San Francisco denominato North Beach; ospitava al secondo piano la redazione della rivista di cinema e cultura City Lights, ispirata al film “Luci della città” di Charlie Chaplin, fondata insieme a Peter Martin, il socio con cui condivideva le medesime origini italiane.

Il luogo divenne presto il ritrovo della Beat Generation, di molti dei suoi protagonisti più significativi e Jack Kerouac lo cita in Big Sur dove il fondatore compare come Lorenzo Monsanto, il cognome della madre di Ferlinghetti di origini francesi, sefardite e portoghesi, elemento che, secondo la tradizione israelitica, avrebbe fatto del figlio un ebreo americano, per quanto laico ed anarchico, come Philip Roth e Woody Allen.

Quel mondo fu fatto conoscere nel Belpaese a partire dal 1959 dalla scrittrice torinese Fernanda Pivano che aveva già tradotto un decennio prima Ernest Hemingway, Walt Withman ed Edgar Lee Master, su consiglio di Cesare Pavese.

L’Italia era alla terza legislatura repubblicana con quattro governi Fanfani e uno Tambroni, il maggio francese ancora lontano e il movimento beat fu subito etichettato dai benpensanti come “gioventù bruciata” – dal film di Nicholas Rey del 1955 con l’esordiente James Dean.

Quel James Dean che già aveva esportato anche in Europa il disagio dei giovani americani esploso proprio con la cultura beatink, con i suoi eccessi ma anche con una potente carica di vitale ribellione al conformismo imperante nei deep states, dove gli uomini portavano i capelli a spazzola come Dwight Eisenhower e le donne studiavano prevalentemente economia domestica, pur se in blasonati college femminili, come raccontato nel film “Monna Lisa Smile” del 2003 da un’indimenticabile Julia Roberts. Un’America non ancora posta davanti alla scelta tra Richard Nixon e John Fitzgerald Kennedy.

In piena guerra fredda, la Beat Generation introduceva i temi della pace e del disarmo nucleare, della tutela dell’ambiente, della solidarietà sociale, della vita comunitaria, della contemplazione, della rivoluzione sessuale, dell’emancipazione delle donne, dell’orgoglio omosessuale; indicava nell’uso delle droghe – e ciò ne indebolì il messaggio – una via di espansione della coscienza e delle conoscenza, rifacendosi ai riti dei nativi americani la cui cultura sciamanica era stata diffusa da Carlos Castaneda

Libro diventato immediatamente cult era il Giovane Holden scritto da J.D. Salinger nel medesimo anno, che presto sarebbe stato affiancato da “On The Road” di Kerouac, da “Il Pasto nudo” di Burroughs, da “Gasoline” di Corso e dalla raccolta di poesie “Jukebox all’Idrogeno” di Allen Ginsberg che conteneva anche il già citato poema “Urlo”, scandalizzante inno alla libertà individuale di cui l’autore disse anni dopo «C’è stato un tempo in cui questa poesia è stato il manifesto dei giovani e in cui la conoscevano a memoria».

Quei giovani avrebbero adorato successivamente Joan Baez e Bob Dylan, negli ’60 e ’70 con in tasca il libro “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” di Robert Pirsig e, stropicciati nello zaino, quelli di Bruce Chatwin e del suo precursore Patrick Leigh Fermor. Avrebbero percorso il mondo in moto o in autostop, prefigurando quella ben più agiata generazione Erasmus.

Il tempo della beat generation si esaurì insieme alla vita di cinquantatremila giovani americani nelle paludi del Mekong o durante l’offensiva del Tet; in Italia Gianni Morandi cantava «C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones, girava il mondo ma poi finì a far la guerra nel Vietnam».

L’arrangiamento era di Ennio Morricone e Joan Baez diffuse la canzone in tutto il mondo. Ma non si esaurirono le speranze di poter cambiare il mondo. E quel mondo cambiò pur, come sempre, tra mille contraddizioni, errori individuali e collettivi fatali, tragedie immani e generò nuove consapevolezze e sensibilità nate dalle utopie dei “figli dei fiori” molti dei quali furono decimati dall’eroina e dall’Aids.

Di loro Italo Calvino aveva scritto: «Il problema che la Beat Generation ha posto è come vivere fino in fondo la nostra natura umana in un mondo che sarà sempre più perfettamente artificiale; un mondo da cui sarà difficile tornare indietro: che giova infatti all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria folle anima? Il punto è: una trasformazione del modo di stare al mondo. È abbastanza chiara l’antifona?».

Una poderosa antologia di quegli anni e di quelli successivi è “America Amore” di Alberto Arbasino – di cui ricorderemo il 22 marzo il primo anniversario della morte che lo ha raggiunto ormai novantenne – pubblicato in volume da Adelphi nel 2011 come raccolta di articoli, diari di viaggio, di incontri e di interviste che raccomando a lettori con tanto tempo a disposizione un affresco indimenticabile che inizia con il capitolo Harvard 1959 e, a pagina 729, incontra Jack Kerouac.

Dopo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, nel 2017 Lawrence Ferlinghetti espresse tutto il proprio dissenso verso l’uomo e il politico, ne profetizzò la breve durata alla Casa Bianca, incitando l’America ad una pacifica contestazione generale, dichiarando successivamente che avrebbe atteso l’uscita di scena di Donald Trump prima di lasciare questo mondo. E così è stato. Una delle sue ultime poesie, “Il cavallo di Troia”, rimane tra le più potenti invettive contro l’allora Commander in Chief :

«Omero non visse abbastanza a lungo
Per raccontare la Casa Bianca di Trump
Che è il suo cavallo di Troia
Da cui tutti gli uomini del presidente
Sono saltati fuori per distruggere la democrazia
E installare le multinazionali
Come dominatrici assolute del mondo
Persino più potenti degli stati
E sta succedendo mentre dormiamo
Inchinati, o uomo comune,
Inchinati!».

Il reduce della II Guerra mondiale che aveva preso parte allo sbarco in Normandia, ha visto compiersi tutti i passaggi politici e culturali del XX secolo e del primo ventennio del XXI, dalla generazione Beat a quella Bit rea, a suo avviso, di aver rubato l’innocenza alla California con l’adorazione dei totem informatici e neo capitalistici della Silicon Valley a cui negava, da quel radicale non chic che era, ogni celebrata creatività. Nell’intervista rilasciata a Mauro Aprile Zanetti di Panorama il 24 marzo 2017 e che val la pena di leggere, ha indicato al mondo dove avrebbe trovato l’eredità culturale che lasciava.

Tale testamento è contenuto nei “Ferlinghetti’s Greatest Poems” pubblicato nel 2018 e tradotto in Italia per Mondadori da Leopoldo Carra che ha scritto: «Il miracolo di questa poesia è l’essere riuscita a pronunciare con la stessa scioltezza numerose allusioni a una complessa tradizione testuale, innanzitutto in lingua inglese». Ciò significa che il grande interprete della beat generation, il poeta che è anche editore – tra l’altro di Urlo di Ginsberg – ha innovato sulla consapevole base di un immenso patrimonio culturale, a partire dal quasi coetaneo Dylan Thomas, per comprendere Pound o Yeats, su fino a Whitman, ma anche a tutta la grande poesia inglese dell’Ottocento. L’insieme è il variegatissimo messaggio (impegno civile, ambientalismo, descrizione del quotidiano, struggente meditazione sui genitori perduti) di un artista che concepisce il mondo, pur nella sofferenza che tutti coinvolge, come un «bellissimo posto / per nascere», un posto dove «il poeta come un acrobata / si arrampica sui versi».

Una cospicua e ordinata bibliografia di Lawrence Ferlinghetti è disponibile su treccani.it dove sono presenti anche i rimandi ai principali autori della Beat Generation, le cui edizioni con tanto di data della lettura sono schierate davanti a chi scrive come un commosso picchetto d’onore a tempi e ad emozioni mai dimenticate.

Due sere fa nel corso di un noto talk show della notte, il conduttore mio coetaneo e il suo corrispondente dagli Stati Uniti hanno ricordato, con gli accenti di coloro che ne avevano conosciuto la vicenda umana e culturale, la figura di Ferlinghetti. Richiesti di un commento, i due ospiti in studio, intuitivamente quarantenni, hanno preferito glissare, probabilmente ne sapevano poco o nulla.

Un segnale preoccupante mentre si discute di nuovi paradigmi educativi per la scuola e di inediti modelli per preparare gli studenti durante e dopo l’era Covid, tempi per affrontare i quali sarà utile far memoria dei versi che seguono: «Un sole che tramonta / tiene a bada la notte / tutto questo sospeso nel tempo / l’universo trattiene il suo respiro / c’è silenzio nell’aria / la vita pulsa ovunque / la cosa chiamata morte non esiste».

A noi che di quel tramonto intravediamo l’inizio del viale , resta il privilegio di uno zaino colmatosi lungo le strade del mondo di quelli che non sono soltanto grati ricordi di una “grande anima” ma spinte vitali che tengono insieme origini ed esiti e di cui gli saremo sempre debitori.

«Osa essere un guerrigliero poetico
non-violento, un antieroe.
Controlla la tua voce più incontrollata
con compassione.
Fai il vino nuovo con gli acini della rabbia.
Ricorda che gli uomini e le donne sono esseri
infinitamente estatici, infinitamente sofferenti.
Solleva i ciechi, spalanca le tue finestre chiuse,
solleva il tetto.
Svita le serrature delle porte,
ma non buttare via
i cardini».

(Lawrence Ferlinghetti – da “Poesia come arte che insorge”, Giunti, 2009)

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