Tocqueville, Dickens, Kafka. Quando l’America era solo un racconto
Mentre incombe il ritorno del trumpismo, tutto lascia immaginare un passo indietro della società americana.
Prima che gli Stati Uniti entrassero nell’immaginario collettivo del mondo e che il cinema e la grande letteratura d’oltre Atlantico ne descrivessero ogni aspetto, l’ “America” era una meta che attraeva molti emigrati ma non esercitava un fascino particolare sugli intellettuali europei, poco interessati ad una terra percepita come priva di un’identità cospicua e definita.
Considerata un laboratorio eccentrico, diviso tra rigore quacchero e profonde contraddizioni sociali, durante la prima metà del XIX secolo fu vista come un luogo da studiare più che da raccontare e come tale attrasse Alexandre de Tocqueville che nel 1831 vi fu inviato dal governo francese per studiarne il sistema carcerario nella necessità di riformarne i principi ispiratori ed ordinatori.
Nonostante la pubblicazione del volume “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria avvenuta nel 1764, le logiche reclusorie ammettevano ancora in tutta Europa le pene corporali, il lavoro ad esaurimento, l’assenza di igiene e di luce, la negazione di un obbligo statale del vitto che dipendeva invece dai benefattori, la promiscuità fra detenuti per età, criminalità, recidiva.
L’edilizia carceraria non esisteva e le prigioni avevano sede in antichi conventi, in fortezze dismesse, in castelli medievali, con le immaginabili conseguenze sul piano igienico sanitario e del rispetto dei diritti elementari dei detenuti.
Rivoluzionario al riguardo fu il principio del Panopticon o panottico, il carcere ideale progettato nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy Bentham. L’intento era permettere a un unico sorvegliante di osservare (opticon) tutti (pan) i soggetti di una istituzione carceraria senza permettere a questi di capire se fossero in quel momento controllati o no.
Il modello – all’avanguardia per i tempi anche se poi diventato poi la prefigurazione del Grande Fratello orwelliano – è ancora funzionante a Palermo nel carcere dell’Ucciardone (da un campo di cardi che si estendeva sul luogo) progettato dall’ architetto Emmanuele Palazzotto ed entrato in funzione nel 1842.
Due anni dopo sarebbe stata edificata la prigione che si trova a Reading, nel Berkshire in Inghilterra dove fu recluso Oscar Wilde, rimasta nella storia della letteratura con “The Ballad of Reading Gaol” un racconto basato sulla durissima esperienza di prigionia durata due anni e dalla quale lo scrittore uscì distrutto nel corpo e nello spirito. Sarebbe morto quarantaseienne tre anni dopo, nel 1900.
La missione di Toqueville aveva lo scopo di confrontare l’efficacia di due sistemi “americani” contrapposti: il sistema “filadelfiano” detto anche “solitary confinement” e quello sperimentato nel penitenziario di Auburn nello stato di New York, dove l’isolamento era soltanto notturno ed il lavoro diurno si svolgeva in silenzio, ma in comune. Ciò permise l’introduzione di strutture lavorative simili a quelle della fabbrica e l’ingresso, anche in carcere, del lavoro produttivo.
Presto lo scopo iniziale del viaggio avrebbe virato sul tema più ampio de “La democrazia in America” che formò oggetto nel 1835 di uno dei classici fondamentali degli studi politici attraverso la riflessione sui punti di forza e sulle debolezze di quel paese nei primi decenni dall’indipendenza.
Ma questa è un’altra storia che tuttavia dovette però colpire il trentenne Charles Dickens quando, nel gennaio del 1842, decise di visitare gli Stati Uniti, concedendosi una pausa dopo l’estenuante stesura de “Il Circolo Pickwick” considerato uno dei capolavori della letteratura britannica, il primo romanzo dello scrittore già molto noto anche oltreoceano e che da allora in poi avrebbe inanellato successi strepitosi nell’Inghilterra vittoriana e nel mondo.
Nella stagione fortunata degli sceneggiati di cui ho scritto, la RAI ne trasse una fortunata riduzione televisiva in sei puntate trasmessa a partire dal 4 febbraio 1968, diretta da Ugo Gregoretti, con Mario Pisu, Gigi Proietti, Enzo Cerusico, Leopoldo Trieste, Gigi Ballista e Guido Alberti.
Dickens, severo e attento osservatore della realtà sociale del proprio paese con particolare attenzione alla diffusione della criminalità minorile nelle realtà urbane, arrivò negli USA convinto dì trovarvi realizzati gli ideali rivoluzionari di libertà, giustizia e progresso. Il viaggio si risolse, in realtà, in una feroce disillusione. Lo scrittore non diede un giudizio molto lusinghiero della giovane nazione americana che percorse con mezzi non proprio confortevoli dall’ Est aristocratico e schiavista di Boston e Philadelphia, a New York che trovò orribile, al lontano Ovest. Le descrizioni di luoghi, panorami, costumi e personaggi sono degni di uno dei massimi narratori universali.
In molte delle tappe del viaggio che possono essere ripercorse nel libro “American Notes for General Circulation”, con le illustrazioni curate dall’ amico “Daniel Maclise, tradotto in Italia come “America” e pubblicato da Feltrinelli nel 2001, Dickens volle visitare prima di tutto le istituzioni manicomiali e carcerarie, forse ricordando il monito di Voltaire: “Il grado di civiltà di un paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”.
Gli edifici neoclassici di Washington D.C. , ancora in parte in costruzione, non lo impressionarono quanto, invece, talune abitudini molto diffuse: “Come Washington potrebbe essere chiamata il quartier generale della saliva tinta di tabacco, è giunto il tempo in cui devo confessare, senza alcun travestimento, che la prevalenza di queste due pratiche odiose di masticare e di espettorare è iniziato in questo periodo, anche se tutt’altro che piacevole, e presto divenne ancora più offensivo e nauseante.”
Alla Casa Bianca fu ospite del Presidente schiavista e successivamente secessionista John Tyler, una scheggia impazzita come Donald Trump, che così descrisse : “…Sembrò un po’ consumato ed ansioso e potrebbe stare meglio; voleva essere in guerra con tutti – anche se l’espressione del suo viso era mite e piacevole, ed i suoi modi erano notevolmente spontanei, gentili e piacevoli. Ho pensato che in tutto il suo portamento ed il suo contegno, mantiene singolarmente bene il suo ruolo.”
“America” rimane la storia di un rapporto di amore e odio, verso gli Stati Uniti e gli Yankee, da parte di uno dei più moderni e ‘americani’ rappresentanti del vecchio mondo.
Franz Kafka non visitò mai gli Stati Uniti ma con incredibile lucidità ne descrisse lo spirito in “America” il romanzo giovanile iniziato nel 1911, rimasto incompiuto e pubblicato postumo in Germania nel 1927.
La descrizione che Kafka fa dell’America è simile a quella degli emigranti al cospetto dei loro parenti rimasti in patria. In un contesto caratterizzato da una meccanizzazione estrema e da una sproporzione nelle dimensioni urbane, risaltano le disparità sociali, le difficili condizioni di lavoro e i ritmi disumani e si narra l’enigmatica odissea di un emigrato praghese, il sedicenne Karl Rossmann, condannato all’emarginazione in una realtà grottesca e assurda, ora accolto ora respinto da benefattori che l’accusano e l’escludono, passando attraverso forme di iniziazioni sessuali e sociali.
Una tragicommedia di personaggi inquietanti e ridicoli, in cui i valori sono sovvertiti e le prospettive stravolte, e dove tuttavia il giovane, ingenuamente coerente e fedele ai propri principi di equità e bontà, lotta per l’affermazione di sé. Attraverso le bizzarre peregrinazioni di Karl, sfilano come in una galleria personaggi di ogni genere: il fochista, l’uomo gigantesco conosciuto durante la navigazione, il senatore Edward Jakob lo zio ricco di Karl, Green l’ amico affarista dello zio, l’Oste, padrone di una locanda sulla strada di Ramses, Robinson il fabbro, l’ irlandese Josef Mendel giovanotto con la barbetta a punta che di giorno lavora come fattorino, Fanny, una delle donne dell’annuncio assunzioni davanti all’ippodromo del Teatro Naturale di Oklahoma e Giacomo il ragazzo di piccola statura che lavora agli ascensori.
Un personaggio, quest’ultimo, divenuto iconico nel cinema americano dal brillante “La via dell’impossibile” Topper, del 1937 con Cary Grant e Arthur Lake, diretto da Norman Z. McLeod fino a “The Lift Boy”, il film drammatico indiano uscito nel 2019, scritto e diretto dal debuttante Jonathan Augustin con Moin Khan e Nyla Masood in cui Raju, che vuole diventare ingegnere, dovrà interrompere gli studi per sostituire il padre nel lavoro di addetto all’ascensore. Entrerà in contatto con gli abitanti del condominio e scoprirà un segreto che il padre gli aveva tenuto nascosto.
Tocqueville, Dickens e Kafka raccontarono all’ Europa che si disputava i residui fasti della Bella Epoque un paese lontano che presto avrebbe fatto la propria comparsa nel bagno di sangue della Grande Guerra, introducendo in un mondo smarrito la prospettiva della modernità e successivamente stili di vita e di consumo che avrebbero modificato e ringiovanito il volto incartapecorito del Continente che aveva prodotto i totalitarismi del XX secolo.
Quell’ America che, dopo la parentesi di bolsa autarchia culturale imposta dal Ventennio, sarebbe diventata familiare agli italiani attraverso il cinema e gli scritti di Cesare Pavese, di Italo Calvino, di Fernanda Pivano e di Alberto Arbasino e che oggi sembra aver abbandonato il timone della Myflower anche a motivo della periclitante presidenza Biden che pure tante nuove speranze aveva suscitato.
Mentre incombe il ritorno del trumpismo, pur sotto l’aspetto più presentabile del repubblicano Ron DeSantis, tutto lascia immaginare un probabile passo indietro della società americana con conseguenze negative per l’intero Pianeta.
A Charles Dickens non piacerebbe.