Portolano per rotte inedite verso lidi inesplorati – Fondato e diretto da Luigi Sanlorenzo

Società

Il fragile destino storico delle “spinte di propulsione”

Per propulsione si intende un’attività fisica o spirituale  che determina o è atta a determinare un movimento o cambiamento in una specifica direzione. In senso figurato essa promuove o dà impulso all’ avanzamento, allo sviluppo di qualche cosa o di un diffuso sentire che diventa un mood, un sentiment quale risultato di una rinnovata visione del mondo.

E’ sempre vivo il dibattito se il progresso del genere umano sia morale o intellettuale, quale ne sia  l’attività pratica conseguente, se quella economica, filosofica o religiosa.

In economia sono dette industrie propulsive quelle che guidano la congiuntura (spesso l’industria automobilistica, quella delle costruzioni edilizie, ecc.), che sono cioè le prime a espandersi nelle fasi di sviluppo e le prime anche a essere colpite da flessione dell’attività.

Nella storia dell’Umanità sono state propulsive le reazioni verso fenomeni naturali avversi, la ribellione a  condizioni di vita precarie, l’apertura di nuove aree geografiche e vie commerciale, la rinascita  sociale dopo gravi pestilenze o guerre di portata globale.

Un ruolo molto importante, anche se riconosciuto spesso “a posteriori” è stato svolto dalle correnti filosofiche, da intuizioni e scoperte scientifiche, dall’introduzione di nuovi strumenti operativi che hanno “ribaltato” il mondo e la sua rappresentazione.

Sul piano tecnico,  ogni spinta propulsiva ha generalmente anticipato quella successiva definendo uno sviluppo lineare che, con molte forzature, si è preteso poi di applicare alle società ed agli individui,  dimenticando che modificare un processo industriale o abbandonare una terapia clinica tradizionale per una più innovativa richiede un tempo molto inferiore rispetto alla cosiddetta modifica della mentalità delle persone e dei popoli.

La natura umana infatti è la medesima da diverse migliaia di anni e segue le leggi lente dell’evoluzione, in larga parte legate alle reazioni all’ambiente ed al conseguente imprinting sulle generazioni successive.

Un lungo periodo di pace, intesa come assenza di guerra esplicita, nella parte più sviluppata del Pianeta aveva finito col far dimenticare quanto le componenti reattive della persona siano sostanzialmente immutate.

E’ difficile, infatti, quando si ha larga disponibilità di energia e di beni di consumo, essere consapevoli che altrove può non essere così; è agevole ritenere che la difesa dell’integrità propria, dei propri cari o dei beni posseduti sia talmente scontata da rinunciare ad iniziative personali, delegandole allo Stato e alle leggi o ancora che diritti individuali e sociali  considerati elementari possano invece  avere statuti diversi altrove. 

Uno degli effetti meno considerati della cosiddetta “globalizzazione” è stato il disvelamento della parte più cospicua dell’Umanità rimasta “indietro” quanto ad innovazione tecnologica, architetture sociali, gamma dei diritti accessibili concezione della pace e della guerra.

La generazione dei baby boomers è cresciuta in Occidente con vaghe notizie circa “la fame nel mondo”  la desertificazione dei territori e le conseguenti carestie, le guerre locali,  l’elevato tasso di analfabetismo e l’accesso negato ad una medicina moderna, oggetto di tenere collette sin dalle prime esperienze scolastiche e di altrettanto commoventi componimenti disposti dagli insegnanti.

Ciò, tuttavia, riguardava luoghi lontani, culture quasi del tutto ignote, popoli spesso nemmeno citati dai libri scolastici e di cui qualche missionario rientrato in patria raccontava, quale testimone diretto del fatto che il mondo non era affatto come quello percepito nelle società più avanzate dove crescevano nel frattempo  anche le conquiste sociali e la progressiva emancipazione dei soggetti più deboli.

La diffusione della televisione e le prime immagini di bambini denutriti in Africa o in India, di popolazioni in fuga dall’ Indocina contesa o dalla devastazione provocata da eventi naturali, introdussero lentamente l’idea di quanto il relativo benessere europeo fosse l’eccezione e non la regola.

Qualcosa in più toccò la consapevolezza collettiva nel 1973 allorchè la crisi petrolifera costrinse a trascorrere le domeniche senza automobile, alla riduzione dell’orario delle trasmissione televisive e poco altro.

Si trattò tuttavia di un breve periodo, vissuto come una bizzarra e momentanea evasione alla vita ordinaria. Era un presagio avvertito da pochi ma fu vissuto come una scampagnata dove la momentanea mancanza di alcune comodità ha quasi il sapore di una divertente trasgressione.

Di fatto, invece, stava per iniziare la lenta erosione della spinta propulsiva che dalla fine del XVIII secolo in poi aveva liberato progressivamente l’uomo occidentale dalla fatica fisica del lavoro, liberando energia nell’impegno verso conquiste sociali e sindacali, rappresentate da nuovi attori politici e dal protagonismo anche della classe operaia e piccola borghesia ai cui figli si aprivano intanto anche le porte di ogni Facoltà dell’Università di massa, le più prestigiose delle quali erano prima riservate soltanto a quanti provenissero dall’istruzione superiore di tipo classico o scientifico.

Sul piano della rappresentanza politica si aprivano in Italia nuove prospettive per l’accesso al governo delle forze di origine marxista, che frattanto si dichiaravano affrancate dalla dipendenza da Mosca, preferendo, come ebbe a dire Enrico Berlinguer, il più rassicurante ombrello della NATO e portatrice di maggiori consensi elettorali  la fine della demonizzazione del consumismo e dei relativi idoli,  ma pagando questa abiura (contro cui soltanto Pier Paolo Pasolini osò levare la propria la voce) con “la perdita dell’innocenza” le cui ultime vestigia  sarebbero rimaste poi sotto le macerie del Muro di Berlino.

Nonostante gli avvertimenti contenuti nell’Enciclica “Centesimus Annus” di Giovanni Paolo II che ammoniva contro il trionfo “senza se e senza ma” del capitalismo e dell’economia di mercato, in ogni parte d’Europa e del continente americano  entrambi trionfarono insieme all’idea, poi rivelatasi tragica, di adoperarsi per esportarne il modello in ogni parte del mondo, anche con il ricorso alle armi, variamente “giustificato” nelle molteplici situazioni geo-politiche.

Eppure, nel momento di massima espansione, la spinta propulsiva dovette arrestarsi dinanzi al risveglio della vocazione imperialista cinese, al fenomeno del fondamentalismo islamico e della rinascita del Jihad, alla mancata integrazione di molti immigrati che – a differenza di quanto accaduto con i meridionali che lasciavano le campagne per le industrie delle città del nord Italia assumendone costumi ed abitudini – rivendicavano gli elementi della propria identità anche in contesti nazionali ampiamente laicizzati.

Due autori vanno ricordati al riguardo: Pier Paolo Piscopo con “Banlieu.Tra emarginazione e integrazione per una nuova identità” edito da Il Formichiere nel 2018,  dove emerge con una certa chiarezza il bisogno di questi giovani di identificarsi – oltre che nella comunità musulmana – in una causa comune, perfino di immolarsi, nel tentativo di cercare un accesso alternativo a quella pari partecipazione che gli viene sistematicamente negata.

Uno spaccato sociale che già dal 1985 aveva visto la grande diffusione dei romanzi di Daniel Pennac, raccolti ne “Il ciclo di Malaussène” e  ambientati nel quartiere parigino multietnico di Belleville.

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Tornando al tema della  “spinta propulsiva” del novecento post bellico ed al suo lento declino senza che nel frattempo ne emergesse una inedita, non possono essere eluse alcune domande:

l’adagiamento nell’ american way of life ha differito sine die la nascita di una spinta propulsiva di nuova concezione, cristallizzando ai due lati della Cortina di Ferro i modelli anteguerra, salvo a riproporli alla fine di essa con gli effetti di generale spaesamento che sono sotto gli occhi di tutti ?

è possibile che, finita l’utopia della lotta di classe,  la Sinistra occidentale si avvicini progressivamente al liberalismo sul terreno comune dei diritti civili, rileggendo in altra chiave il rapporto tra Capitale e Lavoro,  trasformandosi in socialdemocrazia ed abbandonando gli orpelli del comunismo originario inteso come dittatura del proletariato,  confinandoli nel limbo del folklore,  al pari di quanto sta già in parte accadendo per le frange estreme nella Destra italiana ed europea?

è lecito pensare che il conflitto sociale oggi non abbia più una coloritura specifica ed aspiri invece ad una ricomposizione attraverso una maggiore presenza dello Stato nazionale nelle situazioni di inasprimento delle povertà che, proprio in quanto di diversa composizione e consistenza nei vari stati dell’Unione, non possono trovare più in essa una generica definizione di solidarietà attraverso i tre fondi strutturali tradizionali  (FESR, FSE e Fondo di Coesione) che prima o poi torneranno a prender – con vincoli ed opportunità –  il posto del generoso ma temporaneo Next Generation EU necessitato all’emergenza pandemica?

sono questi gli elementi che stanno portando la Destra Europea a tallonare sempre più da vicino i Paesi alfieri della “Società aperta”  rivelatasi un’ennesima utopia nonostante abbia avuto padri non meno illustri di quelli del Comunismo ?

E, infine, come reagiranno i Paesi del Benessere alle conseguenze economiche della guerra che oggi si aggiungono all’arretramento della qualità della vita determinato dagli anni della pandemia ? Saranno ancora “olimpici ed illuminati” o, quando la crisi morderà non solo i ceti più deboli ma anche la media borghesia, diventeranno facile preda di populismi e sovranismi nel segno perenne dell’egoismo dettato dal bisogno che spesso sfocia nell’individuazione di un “capro espiatorio” abilmente evocato da chi ha interesse a farlo?

Sono domande che ci incalzano davanti al conflitto ucraino che ripropone nel “cortile di casa” immagini dimenticate di guerra e di distruzione e raccontano in tempo reale il dramma delle vittime civili a dimostrazione che la Storia non ha mai  un andamento lineare,  ma ciclico, in una sorta di “continua ed immensa ricapitolazione”  della natura umana, come  nella profezia, dal vago sentore baconiano,  che Umberto Eco pone sulle labbra del monaco oscurantista Jorge da Burgos e che appaiono tanto simili agli anatemi che il Patriarca ortodosso di Mosca, Kirill I,  scaglia contro l’Occidente “degenerato”.

“Ma del nostro lavoro, del lavoro del nostro ordine, e in particolare del lavoro di questo monastero fa parte – anzi è sostanza – lo studio, e la custodia del sapere. La custodia, dico, non la ricerca, perché è proprio del sapere, cosa divina, essere completo e definito sin dall’inizio, nella perfezione del verbo che si esprime a se stesso. La custodia, dico, non la ricerca, perché è proprio del sapere, cosa umana, essere stato definito e completato nell’arco dei secoli che va dalla predicazione dei profeti alla interpretazione dei padri della chiesa. Non vi è progresso, non vi è rivoluzione di evi, nella vicenda del sapere, ma al massimo continua e sublime ricapitolazione.“

E, anche se nessuno è disposto a credere ad un’ imminente escalation nucleare, non vi è dubbio che il semplice evocarne la possibilità, mai accaduto dal tempo della Crisi dei missili di Cuba del 1962 – un drammatico sessantesimo anniversario che interpella oggi sul proprio ruolo di mediatore ultimo tra i contendenti  Papa Francesco quale successore di Giovanni XXIII – sia il segnale della caduta dell’ultima barriera etica a protezione della pace universale e perpetua auspicata da Immanuel Kant nel 1795.

a) “Nessuna conclusione di pace, che sia stata fatta con la riserva segreta della materia di una guerra futura, deve valere come tale. Una conclusione fatta con la riserva segreta di una guerra futura non può definirsi pace, ma rappresenterebbe solamente un armistizio.

b) Nessuno Stato che sussiste in modo indipendente deve poter essere acquistato da un altro per eredità, permuta, compravendita o donazione. 

c) Uno Stato non deve essere comprato o venduto in alcun modo: uno stato non è una proprietà ma un insieme di esseri umani, comprare uno stato significa oltrepassare la volontà delle persone che vivono nello stato, le uniche a cui si potrebbe imputare la proprietà.

e) Gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono col tempo del tutto cessare. Essendo la guerra l’unica finalità di questi eserciti, essi istigano alla guerra. Inoltre un esercito permanente comporta una spesa economica rilevante e spesso l’unica soluzione che uno stato ha per liberarsi da questo peso economico è fare guerra.

f) Non si devono fare debiti pubblici in relazione a conflitti esterni dello Stato. La guerra è una spesa e non un investimento, indebitarsi per fare guerra risulta una doppia spesa a cui, in caso di esito negativo, uno stato non può fare fronte.

g) Nessuno Stato deve interferire con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato.

h) Nessuno Stato in guerra con un altro deve permettersi ostilità tali da rendere impossibile la fiducia reciproca nella pace futura: come l’impiego di sicari (percussores), di avvelenatori (venefici), l’infrazione della resa, l’istigazione al tradimento (perduellio) nello stato con cui si è in guerra etc. Anche durante una guerra deve rimanere fiducia nella disposizione d’animo del nemico. ”  (Per la pace perpetua – Zum ewigen Frieden. Ein philosophischer Entwurf, 1795).

Sono parole che ritornano in questi giorni: esse esprimevano, oggi come allora,  la giusta preoccupazione per chi come Kant presagiva la fine della spinta propulsiva dell’Illuminismo quale primato della ragione e del sapere e vedeva già nei due gemelli diversi che sarebbero nati dall’idealismo etico hegeliano i due Dioscuri pronti ad aprire le porte di una drammatica ed irrazionale modernità fondata sul conflitto.

Chissà se un giorno, come accadeva per gli abitanti di Köningsberg, oggi Kaliningrad, dove Kant visse e morì, torneremo a regolare su di lui  l’orologio della Storia?