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La festa dei morti di Salvatore Sutera

La “festa dei morti”,  paradosso verbale,  è sempre stata una ricorrenza importantissima per i bambini palermitani, ma forse adesso è morta e sepolta con i defunti dei quali si celebra la memoria.

  Nel calendario liturgico tale ricorrenza va sotto il nome di “commemorazione dei defunti”, ma il palermitano ha saputo andare oltre i dettami di Santa Madre Chiesa. Chiamandola “festa”, infatti, ha ridato la gioia della vita a coloro che materialmente vivi più non sono, li ha di diritto riportati ad una visibilità che sarebbe stato impossibile potessero avere, li ha riproposti non come cadaveri putrefatti o scheletri ridotti in polvere, ma ha regalato loro una nuova immagine che, a ben pensarci, è quella che la Chiesa stessa proclama nella sua dottrina: “la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà.”

   Oggi, in una società ingannata da una presunta eternità ottenuta con creme antirughe, integratori miracolosi e politicamente scorretti “aumenti della durata della vita”, si cerca di annullare il concetto stesso della morte, ma la morte non si fa fregare e si prende la sua bella rivincità dalle pagine dei giornali e dai servizi dei tiggì, dove ad ogni edizione ti sciorina un lunghissimo elenco di morti con dovizia di particolari.  “ ‘Unni è ca fu stù terremotu?”dice il telespettatore palermitano, che ormai abituato a queste stragi quotidiane, continua a pranzare o cenare davanti al televisore come se stesse vedendo una telenovela. “In Giappone? Dumila morti? Ah…luntano è!”. Oppure: “Ci fu ‘na fuoriuscita radioattiva in Russia? Cinqucentu morti? Menu mali ca nni nuavutri di stì cosi nun ‘nn’avemu!”. E così, rassicurato, continua a mangiare la sua brava pasta ch’i milinciani o ‘a bedda cutuletta ch’i patati fritti.

  Mi perdonerete questa breve disquisizione teologico-filosofal-culinaria, ma, come ho detto all’inizio, se elimini il concetto di morte, elimini il concetto di “morti”, ergo, tale festa non ha più logica di esistere.  Io, invece, voglio continuare a parlare di questa festa così come l’ho vissuta quando ero bambino, in un’epoca in cui i sogni non erano stati ancora distrutti da una società che ha ucciso la sorpresa e le attese.  I ricordi che io posseggo di tale gioiosa ricorrenza sono molti e tutti bellissimi, ancora vivi e dal sapore di favola.

A Palermo la festa dei morti era una tradizione fortemente radicata in qualsiasi strato sociale, una festa democratica, insomma. Non arrivava all’improvviso ma veniva preparata con cura da genitori, zii e nonni che mantenevano una sicula omertà sui giocattoli da comprare ‘e picciriddri, ai quali si faceva credere che nella notte precedente il 2 novembre, i morti portassero doni ai bambini che si erano comportati bene. Era un modo leggero ma non superficiale per far pensare ai defunti della propria famiglia che mantenevano così un legame con i vivi. Però, – ecco che la gioia veniva preceduta dalla paura di qualcosa di soprannaturale! – noi picciriddri non dovevamo svegliarci perché altrimenti i morti sarebbero venuti c’agrattalora e ci avrebbero grattugiato i piedi! Orrore! Già sentivamo nelle orecchie questo suono stridente e l’odore della pelle scorticata. E cù s’aveva arruspigghiàri! Ma mancu ch’i bummi!

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La minaccia era chiaramente un deterrente affinché noi piccoli non vedessimo i grandi che, di notte o alle prime luci del giorno, posizionavano i giocattoli in modo tale da nasconderli, ma neanche tanto, per farceli trovare la mattina seguente con relativa facilità.

  A quell’epoca, in realtà, non avevo conosciuto “da vivo” qualcuno che “da morto” potesse portarmi dei giocattoli, ma questo fatto di pensare che mi dovessero arrivare dei doni da qualcuno che non avevo mai conosciuto ammantava di mistero l’intera faccenda.  Appena sveglio, quindi, e dopo aver ben osservato i miei piedi, – hai visto mai mi fossi svegliato per fare la pipì? – il mio primo pensiero era quello di andare a casa dei miei nonni dove, per tradizione, si svolgeva il rito della ricerca. E i giocattoli quasi balzavano fuori da soli dai visibilissimi nascondigli nei quali erano stati deposti. Che gioia vedere quel camioncino visto alla Standa, o Fort O’Hara ammirato nelle vetrine dell’Upim, con i cowboys, i soldatini e gli indiani,che a quell’epoca erano ancora visti come i “cattivi”.

  E poi i luoghi della festa dei morti!A Palermo, nella zona chiamata Fiera Vecchia esisteva, per tradizione pluridecennale, una sorta di mercato pieno di baracche di legno nelle quali  acquistare i giocattoli da far trovare ai bambini in tale occasione. Era chiaramente un periodo in cui ancora non esistevano gli ipermercati o quei negozi super-specializzati dove anche gli adulti perdono la testa.

   Il mercato della Fiera Vecchia è rimasto in auge sino ai primissimi anni Novanta, anche se con diversa fisionomia: i videogiochi, infatti, avevano già cominciato lentamente a sostituire le pistole e i fucili dei quali noi maschietti di un’epoca diversa eravamo fieri, mentre le Barbie superaccessoriate avevano scalzato le carrozzine e i bambolotti con i quali le bambine giocavano a fare la mamma. In questi ultimi anni di confusione sessuale, poi, anche i giocattoli si sono adeguati col risultato che non esistono più differenze tra quelli per femminucce e quelli per maschietti. Play station e video giochi per tutti e così non si sbaglia!

 “ ‘A maestra di Noemi ci dissi ca oramai c’è ‘a teoria Gender, ca significa ca masculi e fimmini sunnu tutti ‘a stessa cosa, e perciò nun  è ca pi forza ‘a picciriddra si ci avi a regalare ‘a carrozzina o ‘a bambola, o a tò figghiu ‘u palluni firmato di Donnarumma picchì è masculu!”, ho sentito raccontare ad una mamma rivolta al cognato che voleva regalare alla nipote una Barbie.

  “Ma chi va’ dicennu!” rispose offeso quello. “Me’ figghiu è masculu e io ci arregalu ‘na bedda pistola o ‘u motorino. Seee…ora ci accattu ‘a bambola ca accussì mi crisci…talè, finìscila! Lassa ca ‘a maistra mi veni a cuntari stà storia a mmia ca ‘u sacciu iu chiddu ca ci haiu a rispunniri!”.

Adesso, questo “paese dei balocchi” che animava la Fiera Vecchia in quei giorni, non esiste più, e del resto a cosa potrebbe servire dal momento che per i bambini la festa dei morti è ogni giorno, e i regali vengono scelti direttamente dal pargolo che ha visto così “assassinato” dai genitori e dalla televisione l’impareggiabile gusto della sorpresa? E, chiaramente, il tutto estraniato dalla vera origine della ricorrenza del ricordo dei defunti! Perché, non sia mai, i bambini di oggi abituati a vedere in televisione la media di una decina di morti ammazzati al giorno, con litri di sangue

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che schizzano a destra e a manca, a sentire parlare di defunti potrebbero traumatizzarsi! Bedda matri! Portarli al cimitero a far visita ai morti della famiglia almeno in questa occasione? Signuruzzu  scanzatinni!

   Personalmente ho creduto a questa bellissima tradizione sino all’età di dieci anni ma ho cominciato a recarmi al cimitero anche da più piccolo e vi assicuro che tutti questi traumi “da realtà”, che servono a certi adulti solo come alibi per mascherare i propri limiti nell’educare i figli e a non dar loro i mezzi per “crescere”, non li ho mai avuti.

   Il Giorno dei Morti era pure caratterizzato anche dai cosiddetti “pupi a cena” che uno zio portava a noi bambini. Questi dolcissimi personaggi antropomorfi rappresentavano una tradizione che vanta diverse tesi e origini, ma una di quelle più accreditate e suggestive riferisce di dame e cavalieri di zucchero creati dai maestri della bottega del Sansovino (addirittura) ed esibiti come centro tavola di un sontuoso banchetto per onorare Enrico III nel suo passaggio da Venezia nel 1574.

La cosa giunse alle orecchie dei marinai siciliani che si trovavano nel porto della città lagunare. Si sa, le notizie volano arricchendosi di fantasie ad ogni passaggio e a Palermo giunse così voce di questa mirabilia. Che ti fanno i nostri pasticceri che non si sentivano per niente inferiori ai mangiatori di polenta e osei? Ti inventano i paladini di zucchero, dipinti con colori vivi e sgargianti dove i rossi, i gialli, i verdi e gli azzurri rivaleggiavano con i colori dell’arcobaleno. Questa tradizione andò poi arricchendosi nei secoli di personaggi sempre nuovi e al passo coi tempi, un po’ come i personaggi dei presepi di san Gregorio Armeno a Napoli e quindi, accanto ai vari Orlando, Rinaldo, Angelica o Bradamante che arricchivano le tavole dei nostri progenitori, il 2 Novembre -i pupi a cena, appunto -, cominciarono a fare la loro comparsa i bersaglieri, Tarzan e, in epoche più recenti, i Puffi, l’Uomo Ragno, Superman, Totò Schillaci sino a giungere a Luca Toni, ex  bomber del Palermo, Messi e Ronaldo. Eroi dei nostri giorni, insomma!

   Sinceramente, i pupi a cena a me non sono mai piaciuti; troppo dolci e troppo duri, ma mi affascinava la scultura in sé, quei colori “arraggiati” e il senso della tradizione che rappresentavano. Mia zia Gianna, quando vedeva che quelle creazioni di zucchero rimanevano intatte per molti giorni, li scioglieva facendoli bollire e preparava così una specie di rosolio sicuramente non consigliabile ai “diabetici”. Mio zio comunque non si arrendeva, ed ogni anno, finché non diventammo giovanottini, rispettò la tradizione.

   Oggi la festa dei morti è stata svuotata di ogni significato. La morte? Meglio non pensarci, esiste soltanto nei videogiochi ma è finta, i personaggi tornano a recitare la parte per la quale sono stati programmati, e così quell’eternità tanto agognata dall’uomo è stata finalmente raggiunta. Il problema è che la realtà virtuale è una cosa e la vita reale un’altra.

La differenza la fanno i morti, quelli veri, e dei quali vogliamo a tutti i costi dimenticarci.