Scrittori su Nuovi Approdi – Salvatore Sutera, Una scala verso il cielo
Nell’ambito del costante dibattito sul contributo delle donne di ieri e di oggi allo sviluppo della società italiana, pubblichiamo con piacere un racconto inedito di Salvatore Sutera (*)
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Conobbi la signora Cristina quando lei aveva 80 anni.
“Non sono vecchia,” amava ripetere “sono solo una ragazza che ha quattro volte vent’anni, ecco!”.
E aveva ragione. In lei non c’era niente di vecchio, nemmeno il corpo che cercava di mantenere in forma con lunghe passeggiate, appoggiata ad un bastone dal manico di lucidissimo argento, e usando creme e unguenti che spalmava sul viso e sul collo con cura maniacale. Piccola ma di struttura regolare, aveva un viso gentile e sorridente sul quale spiccavano due occhietti furbi e volitivi. A Riolo Terme, il luogo di villeggiatura dove un’estate ebbi la fortuna di conoscerla e frequentarla poi per alcuni anni, mi piaceva sentirle raccontare le vicende, o meglio, le avventure della sua vita. Spesso, la sera, quando assieme ad alcuni clienti della Pensione – così si chiamava la maggior parte di alberghi per famiglie che fornivano, appunto, servizio di pensione completa – ci si riuniva sulla veranda nella vana speranza di un fresco notturno che tardava ad arrivare, le davo il “la” affinché iniziasse a parlare; allora i suoi occhi si illuminavano e tornavano ad essere quelli di una donna forte che aveva vissuto la vita tenendo ben strette nelle mani le redini del proprio destino, contro tutto e contro tutti.
“Ero poco più che una bambina quando morì mio padre” esordiva. “Gli volevo un bene dell’anima. Era il mio eroe perfetto, come uno di quei personaggi avventurosi dei quali mi raccontava per farmi addormentare. Già, perché sin da piccola io ero un tipo un po’ particolare, non come le altre bambine che volevano ascoltare fiabe di fate e principesse, ma racconti di imprese e città di sogno. Vivevamo serenamente, anche se non agiatamente, mentre mio padre era vivo, ma alla sua morte molte cose cambiarono in breve tempo, segnandomi per sempre, ma temprandomi nello spirito e nel corpo.
“La casa dove abitavamo, all’interno del vasto podere che i miei genitori gestivano per conto di un grosso proprietario, non lontano da Bologna, era ampia e spaziosa, allevavamo delle galline per conto nostro, avevamo un bell’orto e il necessario non ci era mai mancato. Morto mio padre, il proprietario per qualche mese ci tenne ancora lì, ma poi disse chiaramente che aveva bisogno di uomini per guardare meglio i suoi interessi. Fummo quindi costretti a lasciare la casa e ci trasferimmo – lo ricordo come fosse ieri – a metà agosto, mettendo tutte le nostre masserizie su un vecchio camion che lasciava una scia di fumo nero e denso e sembrava dovesse sfasciarsi da un momento all’altro. Dalle campagne di Dozza ci trasferimmo in quelle di Parma, dove uno zio si era reso disponibile ad ospitarci.
Furono anni di duro lavoro per mia madre e per mia sorella, più piccola di due anni, ma particolarmente per me, perché io volevo dalla vita qualcosa di più che un semplice piatto di minestra e un pezzo di pane. Da bambina, infatti, immaginavo la mia vita come una serie di gradini ai quali, giorno dopo giorno, se ne sarebbero aggiunti altri, formando una lunga scala per salire verso il cielo e perdersi tra le nuvole. Giurai a me stessa che quegli scalini li avrei saliti tutti! La vita, intanto, andava avanti.
“Avevo sedici anni, ormai, ed ero diventata una bella ragazza”.
A questo punto, invariabilmente, Cristina tirava fuori dal portafogli una piccola foto in bianco e nero, leggermente ingiallita,che mostrava una procace ragazzina dai lunghi capelli chiari, appoggiata ad una bicicletta.
“Ero carina, no?” diceva, aspettando un segno di approvazione dai suoi ascoltatori. “La sola bellezza non ti sfama, però, e perciò dovevo continuare a lavorare in campagna. Raccoglievo la frutta, le olive, l’uva, insomma non stavo certo con le mani in mano e lavoravo più di un uomo perché volevo ottenere rispetto e non essere di peso a nessuno. Risparmiavo su tutto pur di mettere qualche soldino di lato per acquistare libri e vestiti, le mie vere, grandi passioni.
“Le mie colleghe di lavoro, con una punta di invidia, mi chiamavano “la principessa” perché, anche quando lavoravo nei campi, cercavo di vestirmi con gusto ed in modo elegante: foulard colorati, gonne e camicette abbinate, calzature comode ma non quegli orribili scarponi da uomo usati anche dalle mie compagne.
“Molti giovanotti mi mettevano gli occhi addosso ma io facevo finta di non vederli perché non intendevo perdere la mia indipendenza. No, questo non l’avrei permesso neanche all’amore. Io volevo vivere, e avrei lottato con tutte le mie forze perché la mia vita non finisse come quella di tante mie amiche che a trent’anni erano abbrutite dal lavoro e non avevano più voglia di scoprire cosa ci fosse dietro l’angolo. La libertà! Quella cercavo, e la strada della mia libertà passava davanti alla vetrina di un negozio di motociclette dove faceva bella mostra di sé uno scooter che sembrava aspettare solo che io gli montassi in sella. Pensa, mi dicevo, con quella moto potresti girare in lungo e in largo e conoscere luoghi di cui hai letto nei libri; potresti sentire il vento sulla faccia mentre percorri strade sconosciute, conoscere nuove persone, vedere il mondo!
“Ogni giorno, terminato il lavoro, passavo davanti a quella vetrina per vedere l’oggetto dei miei sogni; nel frattempo continuavo a risparmiare finché, una bella giornata di primavera, entrai in quel negozio a piedi e ne uscì in sella allo scooter. Fu un’esperienza fantastica! Mi sembrava di essere veramente una principessa sopra una carrozza trascinata da splendidi cavalli, osservavo il mondo da una angolazione del tutto nuova e, quel che era più bello, lo guardavo in movimento. Fui una delle prime donne d’Italia ad andare in giro in motocicletta. Che invidia per le mie amiche! E che pettegolezzi! Perché non pensare che nell’Emilia dei primi anni Cinquanta le teste fossero molto più libere dai pregiudizi che da voi in Sicilia, eh!
“Quella moto mi regalò anni di felicità. Lavoravo tutta la settimana come una bestia, ma al sabato pomeriggio indossavo il mio vestito più bello e salivo in sella verso una destinazione sempre diversa. Quando tornavo a casa, a sera, raccontavo a mia madre e a mia sorella dei luoghi meravigliosi che avevo scoperto; narravo di pievi che sorgevano, semplici e rosse di mattoni, nella Bassa padana, di strade di campagna che sembravano non avere mai fine e si perdevano nella pianura, degli argini del Po che ormai conoscevo come le mie tasche, del Torrazzo di Cremona e dei paesaggi che avevano ispirato Ligabue, di Busseto e della villa di Verdi a Sant’Agata. Rimanevano a bocca aperta e ascoltavano come se io raccontassi loro delle favole; viaggiavano con la mia fantasia ed io ero contenta di regalare loro dei sogni. Poi andavo a dormire soddisfatta. La domenica mattina avrei avuto un’intera giornata a disposizione e quindi, dopo aver fatto colazione prestissimo e ascoltato le solite raccomandazioni di mia madre, salivo sullo scooter per tornare all’ora di cena.
“Fu durante una di queste gite che incontrai quello che sarebbe diventato mio marito, l’unico vero amore della mia vita. Radamès si chiamava, in onore al nostro Verdi, e già il suo nome attirò la mia attenzione quando lo conobbi. Anche lui viaggiava su una moto in un caldo pomeriggio di luglio; io era ferma sul ciglio dello stradone che costeggiava il fiume perché avevo forato una gomma e c’era troppo caldo per cambiarla. Aspettavo all’ombra di un albero che mi venisse la voglia di prendere i ferri e riparare la ruota quando quel centauro, vedendomi seduta sul paracarro, facendo stridere i freni fermò la sua motocicletta davanti alla mia.
“Serve aiuto?” chiese con un sorriso alla Errol Flynn mentre scendeva dalla moto.
“Grazie, non disturbatevi; so cavarmela da sola!” borbottai infastidita, credendolo il solito pappagallo in vena di attaccare bottone.
“Ma nessun disturbo, signorina. Non si dica mai che il Radames Giaroli non presti il suo aiuto ad una bella ragazza in difficoltà!” ribatté lui, e senza attendere risposta aveva già preso l’occorrente per cambiare la ruota.
“Si vedeva che era del mestiere perché aveva gesti sicuri, e le sue dita si muovevano veloci e precise come quelle di un pianista. Lo osservavo bene mentre lavorava:aveva capelli nerissimi e lucidi di brillantina, come si usava in quegli anni, un viso dai lineamenti regolari, naso diritto e occhi nerissimi dentro i quali ti perdevi; alto, magro ed elegante nel portamento, se avesse indossato lo smoking avresti potuto scambiarlo per un nobile. Insomma, non ci misi molto ad innamorarmene perdutamente. Io avevo ventidue anni, lui venticinque; la primavera successiva ci sposammo e andammo a vivere a Fontanellato, un graziosissimo paese della Bassa dove lui aveva un’avviata officina per mezzi agricoli.
“Furono anni bellissimi, intensi, ci amavamo alla follia, eravamo diversi da tutte le altre coppie che conoscevamo e che la domenica rimanevano in casa a riposare o andavano alla Casa del Popolo a sorbirsi le solite tirate sulla madre Russia e sull’imminente vittoria del proletariato. Noi invece uscivamo sulla sua moto, che era più potente della mia, e non ci perdevamo né una fiera né una sagra; una volta arrivammo perfino a Milano. Alla sera, stanchi, ma con gli occhi pieni di tutte le belle cose che avevamo visto, ci addormentavamo abbracciati come due bambini.
“La nostra felicità però non era destinata a durare a lungo perché un giorno, mentre Radames stava riparando un trattore, si ruppe un martinetto che lo teneva sollevato da un lato e il pesante mezzo gli rovinò addosso uccidendolo”.
A questo punto del racconto, la signora Cristina, puntualmente, si fermava e il suo sguardo si perdeva nel vuoto; i suoi occhi, anche a distanza di tanti anni, si velavano di tristezza e la sua mente sembrava perdersi dietro ai ricordi; poi, in silenzio, prendeva dal portafogli un’altra fotografia in bianco e nero che la ritraeva assieme al marito davanti alla loro officina e la posizionava inmodo tale da lasciar presagire che qualche altra se ne sarebbe aggiunta in questo racconto della sua vita per immagini.
“Come quando era morto mio padre” riprendeva quindi “decisi di non darla vinta al Destino. Mia madre voleva accogliermi in casa con lei e lo stesso desiderava mia sorella, che nel frattempo si era sposata e aveva avuto un bel bambino, ma io volli rimanere nella casa dove avevo vissuto con il mio amore. Compresi che era nuovamente venuto il momento di sbracciarmi e presi in mano la gestione dell’officina ma, non essendo pratica, decisi di assumere un mio lontano cugino che era del mestiere, e pure un giovane meccanico.
“Anch’io però volli mettermi alla prova perché mi piacevano le sfide, e cominciai ad occuparmi personalmente dell’acquisto dei pezzi di ricambio, a trattare con le ditte, con i rappresentanti, e decisi di allargare l’officina creando un nuovo locale per la meccanica delle automobili. Fu la scelta giusta perché in zona non ne esistevano ancora molte, e il mercato delle macchine, nei primi anni Sessanta, era in piena espansione. Ben presto quella piccola officina diventò un punto di riferimento nella zona di Parma e tutti mi chiamavano “la fata dei motori”, avevo trentaquattro anni e non ero proprio da buttar via, sai!”.
E qui Cristina, con una punta di civetteria, metteva accanto alle altre foto uno scatto che ritraeva una bella donna formosa dai lunghi capelli biondi davanti al portone a vetri di una moderna officina.
“Molti uomini mi facevano la corte, ma per me, dopo aver conosciuto Radames, era come se dell’altro sesso non mi importasse più nulla. Inevitabilmente li paragonavo al mio unico grande amore, e dal confronto tutti uscivano perdenti, però” e qui sorrideva maliziosamente facendo brillare i suoi occhi ancora pieni di vita, “ogni tanto cedevo alle tentazioni!
“La gestione dell’officina” continuava “mi prendeva molto tempo, ma non mi distoglieva dai viaggi e dalle letture. Adesso avevo una Guzzi di grossa cilindrata e potevo permettermi di fare spostamenti più lunghi. Una volta arrivai perfino a Venezia e quella fu una scoperta che cambiò definitivamente la mia vita. Che emozione! Vedere la terraferma arrestarsi improvvisamente dinanzi all’acqua come se iniziasse un altro mondo! Le gondole, che avevo visto solo nelle riviste illustrate e nelle cartoline che mi spediva mia sorella che adesso abitava a Mestre con la famiglia, scivolavano leggere ed eleganti davanti a me, col gondoliere che cantava e remava con movenze da ballerino. E i ponti, i canali, le calli dove gente di ogni nazione camminava incantata, senza meta, guardando ogni cosa estasiata! Che meraviglia! Decisi allora che la moto non mi bastava più: se avessi veramente voluto conoscere il mondo e la gente avrei dovuto acquistare un’automobile. Era il 1965 e in quegli anni non erano poi tantissime le donne al volante, ma io ero caparbia e decisi che ci sarei riuscita. L’anno successivo presi la patente e acquistai una macchina, non la classica 500 o 600, ma una rombante spider rossa col tettuccio apribile e i cerchioni sportivi. Guarda che bella!” diceva mostrandomi una foto dai colori un poco sbiaditi. “Potevo permettermela e non ci pensai due volte! In ogni momento libero saltavo in macchina e giravo, giravo, giravo! Era come se lasciassi che le ruote mi portassero dove loro volevano, senza una direzione, senza uno scopo. L’automobile divenne un prolungamento del mio corpo, le ruote le mie gambe, il volante la mia volontà di andare sempre oltre. Era un altro gradino della mia scala verso il cielo!
“Un giorno, su una rivista lessi un articolo sulle Alpi nel quale veniva citato il passo del Brennero. Non avevo mai sentito parlare di quel luogo né sapevo in realtà dove si trovasse, ma quella parola dal suono aspro e tagliente accese la mia fantasia. Brennero: forse aveva qualcosa a che fare con Brenno, un guerriero di cui ricordavo di aver letto da bambina in un capitolo sulla storia di Roma? Forse no, ma quel nome aveva una musicalità e una forza dirompente. Decisi che ci sarei andata, ovunque si trovasse. Guardai sulla cartina geografica, una di quelle che i distributori di benzina ci fornivano per regalarle ai clienti, e scoprì che era un valico di comunicazione con l’Austria. La mia frenesia crebbe:per la prima volta nella mia vita sarei uscita dall’Italia. Un altro sogno si sarebbe presto realizzato! Attesi la settimana di Pasqua, periodo nel quale, per qualche giorno, chiudevo l’officina come aveva sempre fatto il mio povero Radames, e partì per quella nuova avventura.
“Ricordo ancora la sensazione che provai quando posai la borsetta nel sedile accanto al posto di guida e mi misi al volante. Avevo indossato un abito a fiori sotto uno spolverino color cammello, in testa un foulard di seta; occhiali da sole e guanti da automobile completavano il mio abbigliamento da perfetta turista. Una fiammante valigetta in pelle beige chiaro era chiusa nel portabagagli assieme al cappotto, un ombrello e una capace borsa contenente due termos e del cibo in scatola. Girai la chiavetta e mi sembrò di essere un cavaliere della Tavola Rotonda in partenza per la ricerca del Sacro Graal.
“Che emozione quando cominciai a inanellare i tornanti sulle Alpi! Vedevo le cime aguzze e bianche delle quali mi aveva raccontato, da bambina, il fratello di mio padre che aveva combattuto in quelle zone durante la Grande Guerra, la strada che si perdeva verso il cielo, gli alberi fitti e scuri che a poco a poco cedevano il passo a prati marezzati e a vaste radure. La neve brillava sulle vette, abbagliante sotto la luce del sole, e ad ogni tornante vedevo i paesi e le valli scomparire sempre più in basso, sempre più lontani. Mi sembrava di volare verso le nuvole, senza peso, senza corpo, come un uccello che, aprendo le ali, si lasciasse trasportare dal vento. Stavo montando su un altro gradino di quella scala immaginata da bambina. Fu un viaggio indimenticabile!
“Altri ne avrei fatto con la macchina, anzi, con le diverse automobili che avrei acquistato nel corso della mia vita, ma quello fu unico e irripetibile!
“Negli anni a seguire avrei preso anche l’aereo ma quello, per me, non fu mai viaggiare, perché quando voli vedi soltanto cielo e nuvole, non puoi vivere il paesaggio, non attraversi confini, non puoi conoscere la gente”.
Terminato il racconto della sua lunga vita, rimaneva poi in silenzio per qualche istante, gli occhi chiusi, il respiro profondo, assorta nel suo mondo ormai lontano ma sempre vivo in lei; poi,non appena la pendola dell’orologio dell’albergo batteva le undici, si alzava decisa.
“Adesso è tardi” concludeva, “è ora di andare a letto. Ricorda” mi ammoniva “che se si vuol mantenere la pelle giovane e la mente a posto bisogna dormire almeno otto ore per notte. Altro che tirare tardi nelle discoteche!”. E se ne andava col suo passo lieve, appoggiandosi al bastoncino dal manico d’argento, leggera come un sospiro.
Adesso è da un paio di anni che non la incontro più. I gestori dell’albergo mi hanno detto che da qualche tempo si è ritirata in una casa di riposo e che anche loro non ne hanno più notizie.
Forse i suoi grandi ed eternamente giovani occhi celesti continuano a vedere il suo Radames e i paesaggi innevati delle Alpi. O forse ha salito tutti i gradini della sua scala.
Una lunga scala verso il cielo!
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Salvatore Sutera è nato a Palermo. Laureato in Filosofia e diplomato in canto al Conservatorio “Duni” di Matera, didatta di tecnica vocale, da sempre coltiva l’amore per la musica lirica. Per la casa editrice Leima ha pubblicato “Vento di Scirocco” sua opera prima, raccolta di otto racconti, giunta alla seconda edizione, e il romanzo “L’avventura di due garibaldini per caso” secondo classificato al Premio Nazionale Isola 2018 – Pino Fortini. Entrambi, oltre che su territorio nazionale, sono stati presentati anche a Ginevra.
Per la casa editrice Azzali, di Parma, ha pubblicato il volume “Anche un basso può volare…alto” e “Ho brillato in un cielo di stelle” dedicati alla figura del celebre basso-baritono siciliano Simone Alaimo.
Le più recenti fatiche letterarie edite da Leima sono “Una calda scia di sangue” 2021 e “Il Posto degli ulivi” del 2023 Su “Nuovi Approdi” ha pubblicato i racconti “Lo sciopero d’i’ gnuri”
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“Il pallone”
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“Il fiore di Aushwitz”
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