Portolano per rotte inedite verso lidi inesplorati – Fondato e diretto da Luigi Sanlorenzo

Letteratura

Scrittori su Nuovi Approdi – Salvatore Sutera, Il fiore di Auschwitz

In giorni in cui la Storia sembra non avere insegnato nulla, pubblichiamo con piacere il racconto inedito dello scrittore palermitano Salvatore Sutera (*)

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  Il treno correva rapido tra le campagne umide di una nebbia lattiginosa e greve che rendeva sfumati i contorni del paesaggio; ogni cosa sembrava come imprigionata all’interno di quella densa massa biancastra che il vento muoveva appena. I pali scuri che costeggiavano la linea ferrata fuggivano intermittenti davanti al finestrino, unica percezione di movimento in quell’atmosfera ovattata in cui tutto sembrava fermo, un sogno cristallizzato nella memoria. L’uomo era solo nello scompartimento; gli altri passeggeri erano scesi alle stazioni precedenti, e così poteva cambiare a suo piacimento il posto accanto al finestrino, una volta nel senso di marcia, un’altra in quello opposto. L’ambiente era ben riscaldato, ma la visione di quel paesaggio ricoperto da larghe chiazze di neve che l’incipiente primavera non riusciva ancora a sciogliere, gli trasmetteva dei brividi per tutto il corpo, e così non aveva tolto né il pesante cappotto né il cappello. Guardò attraverso il finestrino. La coltre di nebbia sembrava posarsi, pesante come il marmo, sui prati nascosti, sui rilievi bassi e sulle fattorie perse nella campagna, come una coperta che nasconda ogni cosa per negarne l’esistenza stessa. Pesante era la nebbia, come il suo cuore.

   Di tanto in tanto un timido e pallido raggio di sole bucava le nubi, illuminando una macchia di neve che, per un attimo, sembrava brillare, spegnendosi poi nuovamente nel grigiore circostante.

  Stanco di stare col naso appiccicato al finestrino, si appoggiò allo schienale con lo sguardo perso nel biancore anemico del paesaggio. Aveva ripreso a nevicare e i fiocchi leggeri, picchettando sui vetri, vi scivolavano sopra rapidi e inconsistenti, zigzagando in astratte linee che si intersecavano per un attimo.

  Dallo scompartimento accanto giungeva, a tratti, il pianto di un bimbo. Piangeva come quegli altri bambini che, tanti anni prima, avevano viaggiato per quelle stesse campagne, su un treno molto diverso da questo, ma con la stessa meta: Auschwitz! Il solo ricordo di quel  nome, breve e agghiacciante come un latrato, lo fece rabbrividire, facendogli istintivamente stringere i pugni sugli orecchi e chiudere gli occhi per non sentire, non vedere. Dopo qualche secondo uno scossone del treno lo riportò alla realtà; il bambino aveva smesso di piangere e la voce di una donna, suadente e carezzevole, lo consolava.

  “Non temere, Isaac” aveva detto la voce di un’altra mamma, quasi sessant’anni prima. “Giurami che non avrai paura, qualunque cosa accada io sarò sempre con te e ti stringerò forte la mano. Anche se non dovessimo più rivederci, ricorda che ti starò sempre vicino! Tu dovrai vivere per raccontare. Dovrai vivere per me, per tuo padre, per il nostro popolo!”.

 Come risvegliato da un incubo, guardò fuori dal finestrino; nevicava appena e un leggero vento che veniva da est trasportava i piccoli fiocchi facendoli turbinare, disperdendoli poi nell’aria fredda.  Con un ultimo stridore di freni, il treno rinculò morbidamente fermandosi sotto la pensillina di acciaio grigio e nero. Disceso dalla vettura, si indirizzò decisamente verso l’uscita della stazione dove salì su uno dei tanti bus navetta che portavano i visitatori al tristemente famoso campo di sterminio. Qualche minuto dopo scendeva a poche decine di metri da quel luogo di orrore, di morte, di annullamento stesso della dignità umana. L’odiosa scritta a grandi caratteri si stagliava ancora, irridente, sopra il cancello di ferro dal quale erano entrate decine di migliaia di ebrei per non uscirne mai più: Arbeit Macht Frei. Il lavoro rende liberi. Quale sottile,  perfida ironia in quelle parole! Liberi da cosa? Dal peso della vita, la vita che quegli esseri umani avrebbero voluto godere sino alla fine dei loro giorni? Liberi dalla propria dignità, da quel corpo che avrebbero lasciato tra i più atroci tormenti, dall’essenza stessa del concetto di umanità? Arbeit Macht Frei: l’ultima beffa che quell’incolpevole umanità avrebbe dovuto subire.

  L’uomo guardò i binari, lucidi e neri, sopra i quali, un tempo, arrivavano i treni della morte che vomitavano il loro carico di disperazione. Uomini, donne, bambini, vecchi, ammalati, increduli si trovavano catapultati in un mondo irreale fatto di urla, percosse, abbaiare di cani, ordini secchi e duri gridati in una lingua che pochi comprendevano. Quei rabbiosi latrati li sentiva ancora risuonare nelle orecchie e dilaniargli il petto.

  Adesso era di nuovo lì, in quello stesso luogo in cui, stretto ai genitori, era stato obbligato a mettersi in fila, assieme ad altre centinaia di ebrei  tremanti di paura, da uomini che indossavano una lugubre divisa nera e che gridando, con un semplice e imperioso gesto del loro frustino di pelle, dividevano i figli dalle madri, i mariti dalle mogli, i vecchi dai giovani, decidendone in quell’istante il destino. Chiuse gli occhi, e rivide tutti quei giorni come in un flash dal quale, però, nessun dettaglio mancava. La razzia nel ghetto di Roma in quella umida alba del 16 ottobre del 1943. Improvvisamente, il quartiere ebraico si era svegliato tra grida, rombi di camion, stridore di freni di motociclette; e poi, quello sciamare vicolo per vicolo, casa per casa, di tedeschi che sfondavano porte, buttavano fuori dal letto gli ammalati, spingevano giù per le scale chiunque si trovasse in casa. Rivide l’attimo in cui veniva fatto salire a forza su un camion militare assieme al padre e alla madre che continuava a stringergli con forza la mano, pronta a difenderlo con il proprio corpo.  L’uomo guardò di nuovo i lunghi binari, uniche tracce nere in quel desolante paesaggio, due segni di matita su un foglio bianco. Bianco come il nulla. Improvvisamente gli sembrò di veder materializzare una grande locomotiva, scura come la notte, che trascinava, dentro i suoi vagoni piombati, un intero popolo spogliato della propria dignità e che aveva già cominciato a indossare gli abiti della morte.

  Chiuse gli occhi e quegli orribili fantasmi del passato scomparvero per un attimo, inghiottiti nelle pieghe della sua memoria. Con il cuore che ancora gli batteva forte prese a seguire la strada ferrata verso l’ingresso del campo. Appena ebbe varcato il cancello, un brivido di orrore lo percorse in ogni sua fibra. Tutti i fantasmi di un passato mai sopito gli si ripresentarono vividi e veri. Per un attimo gli parve di udire voci che nessuno, al di fuori di lui, avrebbe potuto sentire: ne riconosceva la cadenza familiare, il suono melodioso nella preghiera, il grido atterrito nella disperazione. Il pensiero di fuggire gli attraversò per un attimo la mente, ma i suoi piedi si rifiutarono. Doveva varcare nuovamente quella soglia, per questo era tornato in quel luogo. La morte, in fondo, non poteva fargli più paura: anche lui, tanti anni prima, era morto in quel campo.

  Cominciò ad inoltrarsi per i corridoi di terra innevata che dividevano i blocchi nei quali erano alloggiati i prigionieri, file ordinatissime di baracche posizionate con millimetrica precisione, in un ordine ossessivamente teutonico che non lasciava spazio alla fantasia. Lì venivano stipati quelli che avevano ancora la forza di lavorare e perciò avevano il dovere di vivere per servire i loro aguzzini.

  Un numeroso gruppo di studenti, sicuramente in viaggio d’istruzione, camminava mestamente verso di lui; qualcuno appariva visibilmente commosso, qualche altro serio in volto, tutti parlavano a bassa voce, come in una chiesa. O in un cimitero.  Li osservò con affetto; questi giovani avevano visto, avrebbero ricordato, avrebbero raccontato, non sarebbero rimasti più gli stessi, qualcosa di Auschwitz sarebbe rimasto in loro. Per sempre! Venivano dalla zona dove sorgevano i forni crematori, o meglio, di ciò che restava di essi, dal momento che i tedeschi, prossimi alla disfatta, avevano cercato di far saltare tutto con la dinamite per nascondere le prove dei loro disumani misfatti.

 Lui aveva dodici anni quando aveva fatto il suo ingresso in quell’inferno di vivi, e i suoi quattordici anni, compiuti qualche giorno prima che il campo venisse liberato, non avevano posseduto la leggerezza di quelli di un ragazzo. Grazie alla sua costituzione robusta e al fatto che dimostrasse più anni di quanti in realtà ne avesse, nei primi mesi di permanenza nel campo era stato messo a lavorare accanto al padre, mentre la madre era stata portata, assieme ad altre centinaia di donne, nella baracche separate da quelle degli uomini da un alto reticolato di filo spinato. Lavorando a fianco del padre, in una situazione in cui la morte era quotidiana compagna, aveva imparato a conoscerlo meglio, ricevendo da lui un amore che non aveva mai sperimentato prima d’allora. Un giorno, stremato dalle forze e dall’inedia, il padre era caduto per terra. Immediatamente era stato prelevato da due soldati e scaraventato sul pianale di un camion. Quella notte non tornò nella baracca, e nemmeno il giorno seguente; vedendo il fumo uscire dalla ciminiera, comprese. Ormai sapeva. Pianse senza lacrime e continuò a lottare. Quasi quotidianamente, sfidando gravissimi pericoli, riusciva a scambiare qualche parola con sua madre, al di là della rete.

  “Isaac, ricordati della promessa!” gli ripeteva sempre.

  Un giorno la madre non si presentò all’appuntamento, e anche quella volta le lacrime rimasero chiuse dentro i suoi occhi. Per un attimo pensò che avrebbe preferito morire e guardò i reticolati elettrificati col desidero di farla finita.

  “No:” impose a se stesso “ho una promessa da mantenere! Io “devo” vivere. Devo farlo per loro e per tutti quelli che ancora moriranno. Se dovrò affrontare il peso della vita per far vivere per sempre i miei cari e l’umanità che qui stanno annientando, lo farò!”.

  Strinse i denti e continuò a caricarsi sulle spalle sacchi di pietre e di carbone, a spazzare letame e ad accatastare cadaveri in piramidi delle quali mai nessun turista avrebbe ammirato l’architettura. Ogni giorno di lavoro lo irrobustiva fisicamente, temprandolo emotivamente, e anche se il cibo era sempre più scarso e la fame più grande, riusciva a metabolizzarlo in ogni sua più piccola particella.

    Quanti uomini, donne, bambini, ragazzi come lui, aveva visto morirgli accanto, e per nessuno era riuscito a versare una lacrima. I suoi occhi erano ormai aridi come un campo bruciato dal sole, il suo cuore duro come le pietre che trasportava. Non pianse nemmeno quella volta che gli aguzzini costrinsero lui e altri ragazzi a buttare in un vicino canale delle cassette piene di una polvere finissima e scura che sembrava cenere. Era invece ciò che rimaneva di migliaia di esseri umani “passati per il camino”. Mentre vedeva quella polvere densa, raggrumata in piccoli chiazze che lentamente scivolavano sulla superficie dell’acqua, prima  di disperdersi in granuli sempre più inconsistenti, gli venne in mente una riflessione che, qualche giorno prima che venissero strappati dal ghetto, aveva ascoltato da suo padre per consolare un vecchio amico della perdita di un figlioletto. “Siamo tutti soltanto compagni di viaggio. Con qualcuno camminiamo più a lungo, con qualche altro incrociamo appena le strade per il tempo di un breve saluto. Ciò che non siamo riusciti a dirci, sarà una storia tutta da inventare”.

  Quel giorno aggiunse una promessa a quella fatta alla madre: sarebbe tornato ad Auschwitz! Da uomo libero!

  Adesso l’uomo era solo, ai margini di una spianata innevata dinanzi ai forni crematori, unica costruzione scura su una distesa bianca dove, timidamente, qualche striminzito cespuglio cominciava a punteggiare quell’uniforme pianura. Era solo, ancora una volta, come quando aveva perso il padre e la madre. Si guardò in giro confuso, intimorito dalla solitudine che lo avvolgeva, poi, come se stesse rivolgendosi realmente a qualcuno, con la voce rotta dall’emozione, prese a parlare: “Mamma, papà…sono tornato! Sono ancora una volta qui, dove ci siamo lasciati senza poterci dire addio. Sapete,” continuò  “sono diventato un importante professore universitario, come voi desideravate, e adesso cerco di trasmettere ai giovani non solo dei contenuti, ma il senso stesso della vita. Per chi, come me, è morto tanti anni fa in questo posto, insegnare la vita sembra un paradosso, non vi pare? Un morto che trasmette la vita! Dal seme che muore germoglia il frutto! Nelle mie conferenze in giro per tutto il mondo, parlo di voi, e non potete immaginare quanta gente adesso vi conosca. Mi chiedono del nostro popolo, di tutti quelli che sono stati uccisi in nome di un’immane follia. Sono uomini, donne, ragazzi, esseri umani come lo eravamo noi fino a quando non fummo spogliati anche di quell’ultimo abito. Ascoltano in un silenzio carico di domande e non riescono a credere all’orrore che noi abbiamo vissuto. Quando mostro loro il marchio con la matricola sul braccio, spiego che questo non è un tatuaggio per sentirsi liberi o diversi, ma un simbolo di morte, di umiliazione, doloroso nella carne e ancor di più nell’animo; spiego che gli aghi che ci bucarono la pelle, incidendo per sempre quei numeri, penetrarono sin dentro il nostro cuore, trafiggendolo, annullando le nostre identità, rendendoci simili a cose da poter buttar via in qualsiasi momento. Stuck! “Pezzi” ci chiamavano, togliendoci così anche il nome per farci credere che non eravamo esseri umani, che non eravamo mai esistiti. Avevamo lasciato lasciato la nostra umanità fuori da quei cancelli. Ma io, mamma, il mio nome ho continuato a pronunciarlo: Isaac, Isaac, Isaac! E lo ripetevo a me stesso, con forza, con rabbia, con determinazione, perché io non ero un “pezzo”, io ero un uomo! Nel mio petto batteva un cuore, nel mio cervello si formavano dei pensieri, nelle mie vene scorreva la vita. Questo racconto!”.

  L’uomo asciugò il sudore che gli imperlava la fronte nonostante l’aria gelida.

  “Sai, papà” riprese, “quando fummo liberati e vidi i cancelli aperti, non riuscivo ancora a sentirmi libero. Provavo una strana sensazione: non riuscivo a “vedere” il mondo al di là di essi. Sino ad allora, infatti, anche se i reticolati ci avevano permesso di guardare il mondo esterno, per me era come se non esistesse nulla al di là di quell’invisibile confine. Nulla poteva passare al di là, neanche i pensieri, neanche i sogni. Il mondo iniziava e finiva lì dentro.  Quando alla fine varcai la soglia del cancello fu per me una scoperta meravigliosa. Improvvisamente potevo rivedere il cielo, sentire gli odori della terra, rivedere i colori. Allora il mondo, nonostante tutto, aveva continuato ad esistere? Mi sembrava impossibile. Era per me come una nuova nascita! Avrei dovuto essere felice, eppure non riuscivo a provare nulla, come se anch’io fossi morto insieme a tutti quegli altri nostri fratelli. Sai, mamma, quando nel campo mi vedevo circondato da quello strazio immane, avrei voluto chiedere ai nostri aguzzini: Perché? Soltanto questo. Di quale delitto ci eravamo macchiati, quali colpe avevamo commesso? Quante volte, nelle notti insonni, tremando per il freddo e con lo stomaco stretto dai morsi della fame, avevo posto a me stesso questa domanda: Perché? Al mio interrogativo rispondevano solo i gemiti dei sofferenti e il silenzio assordante dei morti”.

  L’uomo mosse qualche passo verso i forni crematori. Si sentiva svuotato, senza forze, un involucro senza materia. Avrebbe voluto cadere per terra, confondersi con la nebbia, sentire l’abbraccio freddo della neve, ma si piantò saldamente sulle gambe. Doveva resistere. Ancora una volta! Attorno a lui adesso non c’era nessuno; i pochi visitatori che si aggiravano per il campo venivano indirizzati dalle guide verso una grande baracca  all’interno della quale venivano proiettati documentari sulla Shoa a ritmo ininterrotto. Quando sarebbero usciti dalla sala di proiezione avrebbero sicuramente avuto gli occhi lucidi e lo sguardo attonito come quel gruppo di studenti incrociato poco prima, ma nessuno di loro avrebbe mai provato ciò che lui aveva vissuto. Sarebbero tornati a casa e, poco per volta, il dolore di quanto avevano visto si sarebbe attenuato, la distanza stessa da quel luogo di morte avrebbe diminuito la forza distruttiva di quella realtà. Per lui non era stato così! Quel dolore straziante, devastante, incancellabile, lui lo avrebbe portato sempre dentro di sé. Non avrebbe potuto liberarsene neppure nel sonno. Era come un virus devastante che continuava a dilaniargli le carni, svuotargli i muscoli, penetrare nelle ossa distruggendo ogni parte del suo corpo ma non la memoria: solo questa non veniva mai intaccata da quel male refrattario all’oblio. Il suo dolore era nella mente, nel cuore, nella carne, nel midollo, in ogni sua più intima fibra, come un  trapano che non smetteva mai di girare.

 “Mamma,” sospirò abbassando lo sguardo “non sai cosa darei per sentire ancora una volta, una sola volta, il tepore di una tua carezza, rivedere il tuo sorriso, ascoltare il suono delle tue ultime parole: “Non avere paura, Isaac, io starò sempre con te!” E lo sei sempre stata! Ti ho sentito vicina nei momenti in cui per me la vita non aveva più senso, nei giorni in cui la morte sarebbe stata una liberazione”.

  Esitante, fece ancora qualche passo verso l’immonda costruzione.

  “Mamma, papà:” gridò con la voce rotta dal pianto “sono tornato, come vi avevo promesso. Sono tornato da uomo libero. Libero! Libero!”.

  Urlò al cielo queste ultime parole, con forza, con rabbia, con disperazione, e il vento le raccolse facendole volare per tutto il campo, accarezzando le baracche e riunendo in un unico abbraccio tutti coloro che lì erano morti. Per qualche istante l’eco ripetè le sue parole, poi, attorno a lui regnò uno strano silenzio,  un’assenza di suono, di vita; quindi, quasi senza rendersene conto, le sue labbra si mossero impercettibilmente intonando un antico canto ebraico e la sua voce, profonda e commossa, sembrò a lui stesso provenire dalle viscere della terra, da quella terra bagnata dal sangue di  migliaia di esseri umani, dalle sofferenze  di un intero popolo, risuonante delle grida strazianti e senza speranza di chi era morto senza colpa. In quel momento le nuvole si allargarono come le maglie di una catena finalmente spezzata, e un timido, obliquo raggio di sole attraversò la pesante coltre di nebbia, illuminando un piccolo cespuglio all’angolo di quella costruzione all’interno della quale si era consumato l’ultimo atto di quella tragedia. Incuriosito e attratto dal brillìo di quell’unica nota di colore in quel paesaggio monocromatico, si avvicinò alla macchia verdognola: al centro di esso il bocciolo di un fiore rosso, quasi nascosto dalle foglie, reclamava con forza il suo diritto alla vita. Si chinò, e col dorso delle dita lo sfiorò delicatamente.

  “Sei ancora piccolo e indifeso” gli sussurrò, “ma stai già lottando per vedere quella luce che adesso ti è negata. Forse ce la farai a crescere e allora sarai più bello del fiore di un giardino ben curato perché la tua bellezza deriverà dalla sofferenza, e proprio per questo sarà un inno alla vita che durerà per sempre negli occhi e nel cuore di chi avrà avuto il privilegio di vederti.  Sarai la forza della vita in un luogo in cui la morte, nonostante tutto, è stata sconfitta. Forse, un giorno, anche l’amore sboccerà, come te, e allora ogni tenebra sarà rischiarata per sempre da una luce senza tramonto”.

  Lo accarezzò e una lacrima scivolò, amara, su quei petali che sembrarono succhiare avidamente quella goccia di dolore e speranza. Una lacrima che bruciava ma sanava le ferite.

Poi Isaac alzò lo sguardo verso il cielo. I raggi del sole, sempre più caldo, penetravano adesso attraverso la densa nuvolaglia, e con la loro luce illuminavano quel luogo di orrore regalando, alla fine, un po’ di luce anche al suo cuore. Finalmente libero.

 

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Salvatore Sutera è nato a Palermo. Laureato in Filosofia e diplomato in canto al Conservatorio “Duni” di Matera, didatta di tecnica vocale, da sempre coltiva l’amore per la musica lirica.   Per la casa editrice Leima ha pubblicato “Vento di Scirocco” sua opera prima, raccolta di otto racconti, giunta alla seconda edizione, e il romanzo “L’avventura di due garibaldini per caso” secondo classificato al Premio Nazionale Isola 2018 – Pino Fortini. Entrambi, oltre che su territorio nazionale, sono stati presentati anche a Ginevra.

Per la casa editrice Azzali, di Parma, ha pubblicato il volume “Anche un basso può volare…alto” e “Ho brillato in un cielo di stelle” dedicati alla figura del celebre basso-baritono siciliano Simone Alaimo.

Le più recenti  fatiche letterarie edite da Leima sono “Una calda scia di sangue” 2021 e “Il Posto degli ulivi” del 2023  Su “Nuovi Approdi” ha pubblicato i racconti “Lo sciopero d’i’ gnuri”

https://nuoviapprodipress.blogspot.com/2022/01/scrittori-su-nuovi-approdi-salvatore.html

e “Il pallone”

https://nuoviapprodipress.blogspot.com/2022/07/scrittori-su-nuovi-approdi-un-racconto

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