Giallo palermitano:90 anni fa il misterioso suicidio di Raymond Roussel
Che Palermo sia una città dai mille misteri e l’inesauribile fonte di gialli e di giallisti, venati di noir, è cosa nota e lunga è la lista di quanti si sono cimentati con il genere letterario probabilmente più diffuso e venduto in Italia.
La tendenza è cresciuta alla fine del secolo scorso, moltiplicando le figure di protagonisti che vanno da improbabili marescialli detective a commissari, vice questori e sostituti procuratori misogini o in gonnella.
Molto ha influito il successo di Georg Simenon, di cui molti si professano “nipotini” ed eredi, il cui principale personaggio, il commissario Jules Maigret, inchiodò ai divani decine di migliaia di telespettatori, come pure il corpulento Nero Wolf di Rex Stout, per non parlare del mitico tenente Ezechiele – Ezzy – Scheridan cui prestarono il proprio volti mostri sacri del cinema di allora quali Gino Cervi con l’indimenticabile Andreina Pagnani nei panni della paziente consorte, Tino Buazzelli con l’aitante Archie Goodwin, interpretato da Paolo Ferrari ed Ubando Lay che dettò la moda del trench rigorosamente bianco, con cintura e dal bavero rialzato.
Non era ancora il tempo di loden, “montoni” e giacconi a metà gamba e gli italiani si infagottavano in enormi cappottoni di lana che ricordavano ancora i tempi di guerra da poco trascorsi.
Le atmosfere erano quelle americane di Dashiell Hammett, James Ellroy e Raymond Chandler, con relativi accessori di corte Smith & Wesson calibro 38, bionde fatali e truci confidenti. Avevano preso il posto di Arthur Conan Doyle, Edgar Allan Poe, Agatha Christie, autori ottocenteschi più teatrali e forse anche per questo divenuti dei veri e propri classici della letteratura senza altri aggettivi.
Com’è noto Trappola per topi si replica ancora ogni sera nei teatri del West End.
I gialli di casa nostra erano icone di una televisione casalinga che introduceva gli italiani nei corridoi fumosi delle questure e tra le pagine dei mattinali, i rapporti scritti nel linguaggi tipico che ne ha fatto un topos linguistico, di ciò che era accaduto in città durante la notte. In un tempo in cui il mestiere era di gambe prima che di dita, la frequentazione delle questure, e dei pronto soccorso, fu la nave scuola per i cronisti più giovani che su di essa si sarebbero “fatti le ossa”.
I registi erano quelli mitici degli sceneggiati televisivi seguitissimi dai nuovi utenti della RAI, Anton Giulio Majano, Mario Landi, Stefano De Stefani sotto le cui ali cresceva intanto Andrea Camilleri che avrebbe accumulato per decenni nei cassetti le storie del commissario Salvo Montalbano, rivoluzionando il genere e la stessa lingua italiana, allora rigorosamente purgata da ogni forma dialettale, come sanno bene molti di noi, allevati da madri in costante vigilanza per ogni eventuale inflessione locale nella pronuncia dei propri pargoli che ne avrebbe potuto pregiudicare l’ immagine sociale e le future carriere.
Piccole ma significative preoccupazioni borghesi, forse ieri giustificate dai mille pregiudizi verso i siciliani che si trasferivano al nord in posizioni di rilievo e non dovevano essere confusi con i conterranei che vi erano arrivati con la valigia di cartone. Paradossalmente la residua nobiltà isolana, invece si faceva vanto di parlare siciliano in casa e… francese o inglese in società.
La produzione giallistica italiana era stata a lungo giudicata “minore” e tributaria di altre culture, in particolare americana, inglese e francese, che ai lettori erano state indicate dal regime fascista come “demoplutocrazie” decadenti, prive di patrie virtù ed inclini a narrare dei lati più morbosi della natura umana.
Niente a che vedere con i celebratissimi Edmondo De Amicis, Emilio Salgari, Gabriele D’Annunzio nelle cui pagine si esaltavano gli eroismi della nazione impegnata ad allevare, mens sana in corpore sano, “un milione di baionette”.
In Sicilia, poi, dove il tasso di analfabetismo era nel 1951 del 25%, un quarto della popolazione, i pochi libri non scolastici erano ancora i classici popolari di William Galt, pseudonimo di Luigi Natoli pubblicati ad inizio secolo a puntate dal Giornale di Sicilia e raccolti pazientemente in approssimative rilegature casalinghe: I Beati Paoli, Coriolano della Floresta, Calvello il bastardo e tanti altri, ancora oggi ricordati dagli superstiti della generazione precedente alla mia come gli unici testi letterari presenti in casa e tramandati con cura. Chi scrive ne ha trovato le raccolte in vecchi bauli di famiglia, ancora odorosi di tempo antico, fatto di parsimonia, se non quando di miseria.
Natoli, di cui si è scritto molto, fu poi ripubblicato in una meritoria edizione del 1971 dall’editore Salvatore Fausto Flaccovio, con la prefazione di Umberto Eco che ho ricordato su queste pagine.
Va detto tuttavia che, nonostante l’intenzione dell’autore, le simpatie dei siciliani andavano ai componenti della setta, da alcuni considerata un’antenata settecentesca della mafia, percepiti come i difensori dei più deboli contro le angherie della nobiltà che spesso usava i primi “borghesi” come longa manus. La vicinanza al sentire mafioso è uno stigma che per decenni la Sicilia ha portato con sé e che ha generato anche commistioni criminali di piccolo o grande cabotaggio con le Istituzioni, e soprattutto habitus mentale difficile da dismettere
Ma questa è un’altra storia su cui sono stati versati fiumi d’inchiostro e srotolati chilometri di pellicola cinematografia che hanno fatto la fortuna di molti registi sconosciuti e distribuito briciole alle tante comparse locali. Oggi il tema resta un’emergenza da troppo tempo divenuta normalità, nonostante periodici toni trionfalistici che declamano il contrario. Un ‘eredità pesante da cui sono fuggiti, a buon titolo, molti dei nostri giovani migliori che altrimenti sarebbero lentamente ed inesorabilmente appassiti.
Qui comunque interessa focalizzare l’analisi della nascita del giallo in Sicilia, nelle forme non ancora intrecciate con il retroterra mafioso. Un ‘interessante ricostruzione cronologica è stata fatta da Salvatore Ferlita, docente di letteratura moderna all’Università Kore di Enna.
Tuttavia è con Leonardo Sciascia che il genere abbandona il proprio stato di minorità e, lasciate le ambientazioni classiche in un altrove lontano dalla Sicilia, inaugura il genere del giallo politico/mafioso, indagandone in decine di testi noti ai più, radici, commistioni, epifanie, omissioni, trattative e molto altro.
Di particolare interesse al riguardo è il meno conosciuto Atti relativi alla morte di Raymond Roussel incentrato sul suicidio nella camera 224 dell’Hotel delle Palme di Palermo di uno degli scrittori più controversi del primo novecento, avvenuto il 14 luglio del 1933 “ anno XI dell’era fascista”.
Il testo è rigoroso e scarno come i già citati “mattinali” e raccoglie i documenti ufficiali di quel fatto ma lascia ampie zone d’ombre circa la frettolosa chiusura delle indagini e il minimo rilievo dato alla notizia. Come ricordato, il racconto-inchiesta fu pubblicato dalla neonata casa editrice Sellerio nel 1971 e ricevette dalla critica – non soltanto italiana – un vasto ed entusiastico consenso. E’ stato ristampato nel 1977, ma resta, tra i libri di Sciascia, il meno conosciuto.
Dagli incartamenti riportati nel testo si comprende che Raymond Roussel fu un personaggio la cui fama è descritta in modo contraddittorio. Si trova a Palermo perché ama le temperature miti (a luglio?) del luogo insieme ad una accompagnatrice, una signora di 53 anni. I facchini dell’albergo riconoscono il cadavere, il medico, dopo aver visionato il corpo, ritiene che l’uomo sia deceduto per morte naturale “probabilmente causata da intossicazione da narcotici e sonniferi rinvenuti in grande quantità nella stanza“. Risultato: niente autopsia.
Nessuno, a parte Sciascia e a distanza di quasi 40 anni, sembra notare le manifeste sbavature, i personaggi del tutto ignorati, l’autista, per esempio, non fu mai interrogato, le evidenze trascurate e le incongruenze di varia entità. Lo scrittore pone all’ attenzione una sequela di documenti, di parole e di fatti che non fanno che generare perplessità nei lettori. E appare davvero piuttosto insolito che le autorità, al tempo, abbiano sorvolato su così tanti elementi.
Ma chi era Raymond Roussel ? Nato il 20 gennaio del 1877 da famiglia agiata imparentata con i duchi d’ Elchingen, nobiltà napoleonica, può essere considerato, per genio e sregolatezza, l’Oscar Wilde francese. E’ stato riconosciuto come uno dei padri spirituali della Patafisica, della letteratura potenziale e della letteratura combinatoria.
Secondo la definizione di Alfred Jarry, indimenticabile autore di Ubù Re, la patafisica è la scienza delle soluzioni immaginarie, che accorda simbolicamente ai lineamenti le proprietà degli oggetti descritti per la loro virtualità.» e proseguendo nella lettura del Libro Secondo: Elementi di Patafisica – VIII – Definizione, ci si accorge di quanto la patafisica, contrariamente alle altre scienze, non si occupa del generale ma piuttosto del particolare, non si occupa delle regole ma piuttosto delle eccezioni.
Nel tentativo di criticare il pregiudizio generato da una visione condizionata dall’abitudine, Jarry dimostra come sia sciocco decifrare in modo univoco un fenomeno quando ne esistono infinite interpretazioni. A servire d’esempio fa notare che un orologio da polso viene solitamente ritratto di forma tonda quando, visto lateralmente, esso è rettangolare e schiacciato o «Invece di enunciare la legge della caduta dei corpi verso un centro, perché non si preferisce la legge dell’ascensione del vuoto verso una periferia…»
Roussel non fu solo un calembourista e un testardo cesellatore di parole e frasi; ebbe anche un atteggiamento dandistico nei confronti della vita, dovuto forse alla sua enorme ricchezza. Se per le opere cartacee preferiva edizioni di pregio su carta giapponese, a tiratura limitata, per le rappresentazioni delle sue opere affittava i teatri a proprie spese, per tenervi poi solo poche repliche. Il suo atteggiamento nei confronti della fama era dunque duplice: da un lato ne soffriva la mancanza, dall’altro ostentava un atteggiamento snobistico nei confronti del pubblico, che non lo agevolava.
Alcuni suoi comportamenti erano l’ostentazione della sua fortuna: abusava di sostanze psicotrope dell’epoca, viveva in un hotel e si circondava di opere d’arte straordinarie, pur frequentando poco la società. Quando morì aveva dissipato tutta la propria ricchezza.
Eppure Roussel resta una personalità complessa, non liquidabile con l’etichetta di dandy: ben lo sapeva Michel Foucault quando volle indagare su questo personaggio scomparso suicida a Palermo. Roussel fu anche un appassionato scacchista, un inventore, scoprì un teorema matematico, un metodo per un caso di scacchi, fu medaglia d’oro di tiro a segno Non ammise mai la sua omosessualità, anche se il suo biografo ufficiale François Caradec vi ha implicitamente accennato a più riprese.
C’è n’è d’avanzo per comprendere come il personaggio fosse antitetico alla visione fascista della vita e dell’arte, per non tacere dell’omosessualità che, al pari del celibato, il regime stigmatizzava e sanzionava con provvedimenti quali una maggiore imposizione fiscale, l’esclusione dai pubblici uffici e, in casi di scandalo palese, con il confino. Di quella condizione tormentata e travagliata Ettore Scola ci ha lasciato l’indimenticabile ritratto reso magistralmente da Marcello Mastroianni nel film Una giornata particolare del 1977.
Vero e proprio “ingegnere della parola” Roussel fece di tutto per essere riconosciuto nell’ambiente letterario ma invano: le sue opere principali Le Doublure, Locus solus, L’Afrique des impressions, L’etoil au front e La Poussier de soleis sono labirinti di situazioni intricate, di personaggi ridicoli e grotteschi, di macchine strane e tuttavia tale disordine delirante non è frutto di un cervello malato ma è stato costruito con la logica imperiosa di un’equazione matematica o di un rebus lasciato alla soluzione del lettore.
Roussel cercava la gloria ma raccolse solo scherni. Gli fu resa giustizia trent’anni dopo: Jean Cocteau ne fu conquistato e gli esponenti del movimento surrealista, Delis, Picabia e Desnos lo difesero con entusiasmo sino alla consacrazione che ne fece Andrè Breton, che lo considerava insieme al Lautreamont, la cui salma è andata dispersa, dei Canti di Maldoror “il più grande magnetizzatore moderno”. Un’ottima ricostruzione della storia del movimento patafisica è stata pubblicata da ArtTribune il 7 gennaio del 2017.
Nevrastenico ed agorafobo, di Roussel sono state ricordate le abitudini eccentriche: evitava passaggi che lo avrebbero costretto a percorrere una galleria, si sedeva a tavola alle 12.30 precise e se ne alzava alle 17.30 consumando tutti pasti formati da un numero variabile di portate da sedici a ventidue, di seguito e senza interruzione.
Poi consacrava il resto della giornata alla laborioso stesura dei suoi romanzi, dicendo di essi “Verso sangue su ogni frase”. Come Proust, consumava la vita al pari delle candele che gli facevano luce nelle notti del travaglio creativo. Viaggiò moltissimo in luoghi esotici alla ricerca di qualcosa che mai ammise di aver trovato sino, ad approdare a Palermo in quella calda estate del 1933, per morirvi alla vigilia del Festino di cui certamente avrebbe scritto pagine dissonanti e memorabili.
Fu sepolto nel cimitero parigino del Pere Lachaise e chi scrive ne ha visitato la tomba, con un sottile sentimento di gratitudine risarcitoria.
Nell’edificio che lo vide suicida nulla lo ricorda, a differenza di Richard Wagner, che vi completò Parsifal ed a cui è dedicata una targa ed una via limitrofa. Forse occorrerebbe porre rimedio a tale lacuna. Un risarcimento parziale, intanto, va ascritto allo scrittore romano di cospicue origini palermitane, il caro amico di gioventù Fulvio Abate, che ha voluto mantenere viva la memoria di Roussel fondando, con lo spirito ribelle che gli è proprio, l’ Accademia Patafisica e riprendendo sovente i temi cari al movimento surrealista. Già autore di Zero Maggio a Palermo che lo fece conoscere nel 1990, nella sua poetica i temi situazionisti ricorrono spesso anche nei libri più recenti I Promessi Sposini del 2019 e La peste nuova del 2020, entrambi pubblicati da La Nave di Teseo.
Il 15 luglio a Palazzo Venezia, l’Italia firmava il “patto a quattro” e la Francia era ritenuta ancora “la sorella latina”. Ciò influì non poco nella scelta di stendere un velo su quel discusso suicidio in terra italiana. La “pugnalata alle spalle” sarebbe seguita sette anni dopo ed ancora oggi i francesi non l’hanno dimenticata.
Tornando agli atti dell’inchiesta sulla morte di Roussel, i magistrati sembrano essersi accontentati di quanto appariva evidente, senza sospettare di niente e di nessuno. E poi, scrive Sciascia: “oltre tutti questi elementi, senza dubbio concorse la regola fascista, cui polizia e magistratura alacremente sottostavano, di mettere sotto silenzio tutti quei casi in cui il taedium vitae assurgesse a tragici esiti“.
L’intuizione sembra corretta: un suicidio, seppur apparentemente generato in maniera indiretta, poteva dare l’impressione, in un periodo in cui l’orgoglio fascista era al culmine, “dell’impossibilità di vivere sotto la tirannide“. Una evenienza intollerabile quindi impossibile da verificarsi concretamente.
Il caso Roussel viene chiuso nell’arco di una mezza giornata. La camera 224 dell’Hotel des Palmes viene liberata dai sigilli il 21 luglio e il duca d’Elchingen, nipote di Raymond, viene a sapere e si convince che suo zio sia morto suicida, tagliandosi le vene perché rimasto senza soldi. Una verità “derivata” da un circuito di comunicazioni mai verificate e prese per buone. Fake News dell’epoca.
Nell’ultimissima parte del racconto-inchiesta, Sciascia palesa i punti oscuri della vicenda riflettendo, con una punta di amarezza e la sua onnipresente ironia: “I fatti della vita sempre diventano più complessi ed oscuri, più ambigui ed equivoci, cioè quali veramente sono, quando li si scrive – cioè quando da «atti relativi» diventano, per così dire, «atti assoluti».
Insomma cinquanta pagine da leggere in un’ora appena e attraverso le quali Leonardo Sciascia si sofferma, ancora un volta, su un episodio di “banale” cronaca ricorrendo, al solito, ad una scrittura acuta e raffinata. Con la passione di un’analisi tagliente e critica, quella di chi non si accontenta del già dato. E scava per comprendere l’atteggiamento opportunistico di chi avrebbe dovuto operare per scovare un reo e ha preferito accontentarsi delle apparenze, senza vedere o capire oltre. Un principio nemmeno tanto stranamente applicato in ogni tempo e con svariate sfumature di mistificazione della realtà e che avrebbe caratterizzato la produzione sciasciana sino all’inquietante ultimo romanzo Una storia semplice che ebbe nel 1991 una memorabile trasposizione cinematografica con l’interpreazione di grande intensità di Gian Maria Volontè. Un classico da rivedere per le tante analogie con il tempo che viviamo.
Fu ultima grande lezione di scrittura in un’isola che di giallo tinge sovente molti aspetti della propria realtà fino a costituire la radice del fascino intenso di questa terra bellissima dai tanti, troppi, misteri a cui sovente i suoi abitanti si rassegnano in nome di un’insopprimibile volontà di sopravvivere malgrado tutto ciò di cui non sapranno mai la verità.