Portolano per rotte inedite verso lidi inesplorati – Fondato e diretto da Luigi Sanlorenzo

CinemaVagabondaggi

Ucraina. Altre narrazioni

Quanto tutto sarà finito,  la narrazione sull’Ucraina lascerà la cronaca di questi giorni per passare alla storia.

Si scriveranno saggi di grande complessità e le vicende umane individuali e collettive diventeranno romanzi che amplificheranno la conoscenza molto limitata che si ha in Europa e nel mondo  di una regione che fino a ieri appariva lontana come larga parte del mondo slavo.

E, come ho scritto in passato,  molti apprenderanno di quegli eventi più dalla letteratura che dalla saggistica. 

Eppure i sentimenti e le atmosfere che oggi i media  trasmettono senza interruzione hanno già avuto un interprete in Serhiy Viktorovych Zhadan, considerato il massimo esponente  della poesia e della letteratura ucraina contemporanea.

Serhiy Zhadan è nato nel 1974 a  Starobilsk, nella provincia di Luhansk in Ucraina.  Ha  trascorso tre anni come ricercatore in filologia e ha insegnato letteratura ucraina e mondiale e mondiale dal 2000 al 2004. Da allora ha lavorato come scrittore freelance.

Ha iniziato a scrivere nel 1990 rivoluzionando la poesia ucraina: i suoi versi erano meno sentimentali, facendo rivivere lo stile degli scrittori d’avanguardia ucraini degli anni ’20 come Semenko o Johanssen. Inoltre hanno attinto alla sua terra natale: i paesaggi industriali dell’Ucraina orientale. Voroshilovgrad (il nome sovietico di Luhansk), in italiano intitolato La strada del Donbas, racconta la storia di un giovane di nome Herman che ha lasciato la sua città natale Starobilsk (nella regione di Luhansk) ma che deve tornare nella sua terra natale per proteggere ciò che gli appartiene 

Sulla base del romanzo, il regista Yaroslav Lodygin ha tratto il film  The Wild Fields 2018, vincitore di numerosi premi.

Nel marzo 2008, la traduzione russa del suo romanzo Anarchy in the UKR è entrata nella rosa dei candidati del National Bestseller Prize. 

Il suo libro Mesopotamia ha vinto il premio letterario Angelus nel 2015, il premio del presidente dell’Ucraina “Libro ucraino dell’anno” nel 2016.

Il coinvolgimento attivo di Zhadan nell’indipendenza ucraina è iniziato da studente ed è continuato durante le varie crisi politiche in Ucraina. Nel 1992 è stato uno degli organizzatori del gruppo letterario neo-futurista di Kharkiv  The Red Thistle.

 Nel 2013 è stato membro del consiglio di coordinamento di Euromaidan Kharkiv, nell’ambito delle proteste a livello nazionale e dei violenti scontri con la polizia.  I 5 giorni della rivoluzione di Maidan  portarono alle dimissioni del presidente sostenuto dalla Russia Yanukovich. Nel 2014 Zhadan è stato aggredito all’esterno dell’edificio amministrativo a Kharkiv e nello stesso anno ha effettuato numerose visite in prima linea nella regione del Donbass orientale coinvolta nel conflitto armato con i sepratisti russi. Nel febbraio 2017 ha co-fondato la Serhiy Zhadan Charitable Foundation per fornire aiuti umanitari alle città sulla linea del fronte.

Su di lui la critica ha scritto: “La prosa di Zhadan è così poetica, i suoi versi liberi così prosaici. È difficile assegnare un genere al suo lavoro: memorie, diari di viaggio, meditazione tempestiva o inopportuna – o una miscela di tutti questi, incentrati sui temi della mia generazione e della nostra epoca ” (Rostislav Melnikov e Yuriy Tsaplin della New Literary Review )

“Non è possibile riassumere le improvvisazioni speziate, calde, dolci e viziose di Serhiy Zhadan: questo è jazz verbale. Quando lo leggi, temi per la letteraura russa contemporanea: di quelli che ora scrivono in lingua russa, non c’è nessuno tra loro che sia così infernalmente libero”  (Kirill Ankudinov, su Vzglyad.ru)

La trilogia del Donbass costituita da opere autonome sul piano narrativo ma legate da un unico filo tematica si è sviluppata nel periodo che va dal 2010 con La strada del Donbass al 2014 con Mesopotamia al più recente,  Il Convitto del 2017 che con visionaria lucidità racconta una vicenda che potrebbe essere una delle tante che si stanno svolgendo sotto i nostri occhi in queste ore.

 ____________________

Un viaggio agli inferi.

Potente atto conclusivo di un viaggio nelle pieghe più profonde dell’Ucraina orientale,  Il convitto ambientato nel 2015,  dispiega davanti ai nostri occhi una guerra che, fino a ieri l’Europa aveva già dimenticato. 

Paša, un giovane insegnante di inglese, vuole riportare a casa il nipote tredicenne che vive in un convitto. Il fronte si avvicina e la scuola in cui la sorella ha lasciato il ragazzo non è più sicura. Attraversare la città richiede un’intera giornata e il ritorno diviene un’odissea rabbiosa scandita dai posti di blocco e dai fuochi gialli che lampeggiano all’orizzonte. 

Le mitragliatrici rantolano, le mine esplodono. Truppe paramilitari, cani randagi che appaiono come fantasmi tra le macerie, un’umanità apatica che brancola disorientata in un paesaggio urbano apocalittico, dove ogni gesto di malinconica fratellanza e il senso di responsabilità si stagliano con luminosità commovente.

Paša e il nipote si muovono in uno scenario apocalittico e non si può, non si deve, dimenticare che questo non è soltanto un romanzo. La migrazione in altre regioni dell’Ucraina o all’estero per fuggire da granate e soprusi è reale.

Il protagonista non è un eroe classico, forse non lo è proprio e alcuni suoi tratti sono simili a L’uomo senza qualità il capolavoro incompiuto di Robert Musil che ha segnato una generazione oppure  a Leopold  Boom dell’ Ulisse di Joyce che si fa padre di un figlio non proprio,  come allo Zeno Cosini di Svevo a cui rinvia la narrazione introspettiva e in prima persona.

Paša decide di andare a prendere il nipote perché sa che la sorella non affronterà mai il viaggio per raggiungere quel figlio che soffre di epilessia e che è stato dimenticato in quel convitto.

Il protagonista è mosso dall’amore e dal senso di responsabilità e da quello di colpa: doveva riportare a casa il ragazzo prima. Spostarsi non è mai stato così difficile e improvvisamente ci si ritrova scaraventati in un labirinto kafkiano: la stazione è invasa da persone, i militari per strada fermano le persone, il viaggio in taxi assomiglia di più a una rocambolesca fuga. Difficilmente Paša con il suo vecchio cellulare (per comunicare con la sorella e il papà anziano) possa riuscire nell’ impresa.

Le tre giornate di Paša, non conoscono riposo e possono essere riassunte in termini di una lunga corsa che, nella seconda parte del testo, si trasforma definitivamente in una fuga disperata per tornare al calore del focolare, all’ “odore di lenzuola appena lavate” (p.306). 

Nel momento in cui Paša esce di casa non sa esattamente cosa lo aspetti, la sua riluttanza nei confronti dei telegiornali, che tende sempre ad ammutolire, lo coglie impreparato di fronte a ciò che incontra fuori dalla sicurezza dell’abitacolo. Ben preso si accorge, però, del fatto che l’atmosfera ha qualcosa di strano e questa sensazione viene enfatizzata dall’assenza del canto degli uccelli. Il recupero del nipote si trasforma ben presto in un percorso attraverso truppe e posti di blocco. Eppure in tre giorni, l’intero svolgimento de Il convitto è tutto qui, Paša raggiungerà il nipote.

Il carattere interessante del romanzo non si ferma al fatto che viene raccontata, con uno stile sensazionale, una guerra ancora oggi attuale, ma il modo in cui questa narrazione si dispiega.

Il punto di vista è infatti quello di un civile, la cui unica volontà è quella di riportare a casa il nipote, non c’è nessun atto eroico da parte di Paša. Risiede proprio in questo punto di vista la chiave vincente del romanzo, di fronte alla guerra non ci sono privilegiati, le sensazioni sono due, da una parte la paura e dall’altra la voglia di continuare a vivere.

Un romanzo di guerra e di formazione al tempo stesso, come ricorda la postfazione della traduttrice Giovanna Brogi, ordinario di Slavistica nell’Università di Milano,  perché sia Paša che il nipote, subiranno importanti trasformazioni.

Il protagonista  insegnante, che non combatte a causa di una malformazione alla mano, sta cercando – almeno all’inizio – di tenersi fuori dalla questione guerra il più possibile.

Dunque non un eroe tradizionale, anzi. Vuole a tutti i costi rimanere neutrale e il contrasto con chi invece prende una posizione è stridente, fastidioso e persino doloroso.  L’insegnante di educazione fisica, conosciuto al convitto, avrà un ruolo cruciale. Ma anche il giornalista Peter, che lo abbandona in mezzo ai soldati, lo spingerà a riflettere sulle azioni e sull’identità stessa di questo campione di mediocrità.

Ma il riscatto arriva per tutti anche se doloroso. Le macerie, i morti, il freddo, la fame tutto contribuisce alla crescita dei nostri due protagonisti.

Toccante la scena in cui il ragazzino porta lo zio nei pressi di un dirupo: lì sotto c’è il corpo di un uomo e ogni mattina alla stessa ora il suo telefono squilla. La famiglia probabilmente continua a chiamarlo rispettando un’abitudine, ignara delle sorti di quella vittima. Il nipote smette di essere un ragazzino e Paša comincia a smettere di essere un vigliacco.

Quando Paša torna indietro nel tempo a quando era un adolescente,  ci commuoviamo leggendo del suo trauma: cambiare per andare a studiare in città significava cambiare la visione del mondo. Ed è forse proprio da lì che nasce l’incomunicabilità con gli altri.

 Il Convitto è un percorso del corpo e dell’anima, un’anabasi nella mente e nel cuore di una famiglia, un viaggio nella lotta di indipendenza di alcune regioni dell’Ucraina, uno spaccato impietoso delle mille epifanie della violenza.

Paša viene interrogato, spostato da una scena all’altra. Ma quando arriva al Convitto tutto si fa tragicamente più chiaro. Là in mezzo a quei ragazzini rifugiati,  Paša trova la forza e il sentimento che sono mancati fino a quel punto. In mezzo ai malati, quando prega per essere lui il destinato alla morte Paša riesce a riscattarsi 

“Il tempo si è fermato, non è rimasto nulla, non c’è pietà per nessuno. Non riuscirò mai ad andarmene da qui, nessuno ne uscirà vivo, resteremo tutti qui, soccomberemo tutti a quest’acqua mortifera”  Paša ripensa a tutto quello che ha visto in questi due giorni, gli occhi sopraffatti dalla stanchezza e i volti sconvolti dalla rabbia, le voci secche e rauche, i corpi ondeggianti per l’insonnia, il freddo e l’umidità, a un tratto gli viene il vomito: per il freddo patito, per la fame lancinante, per quel vecchio che sta di morte come se si decomponesse proprio qui, sotto la pioggia scrosciante.

Molte sono le analogie con il capolavoro La Strada (The Road) di Cormac McCarthy del 2006, premio Pulitzer per la narrativa 2007 e scomparso novantenne nei giorni scorsi dove,  in uno scenario inquietante, un uomo e un bambino – padre e figlio senza nome – spingono un carrello pieno del poco che è rimasto,  lungo una strada americana che sembra uscita da un incubo. 

La fine del viaggio è invisibile. Circa dieci anni prima il mondo è stato distrutto da un’apocalisse nucleare che lo ha trasformato in un luogo buio, freddo, senza vita, abitato da bande di disperati e predoni. Non c’è storia e non c’è futuro. Mentre i due cercano invano più calore spostandosi verso sud, il padre racconta la propria vita al figlio. 

Ricorda la moglie (che decise di suicidarsi piuttosto che cadere vittima degli orrori successivi all’olocausto nucleare) e la nascita del bambino, avvenuta proprio durante la guerra. Tutti i loro averi sono nel carrello, il cibo è poco e devono periodicamente avventurarsi tra le macerie a cercare qualcosa da mangiare. Visitano la casa d’infanzia del padre ed esplorano un supermarket abbandonato in cui il figlio beve per la prima volta un lattina di cola. 

Quando incrociano una carovana di predoni l’uomo è costretto a ucciderne uno che aveva attentato alla vita del bambino. Dopo molte tribolazioni arrivano al mare; ma esso è ormai una distesa d’acqua grigia, senza neppure l’odore salmastro e la temperatura non è affatto più mite. Raccolgono qualche oggetto da una nave abbandonata e continuano il viaggio verso sud, verso una salvezza possibile.

Nel libro di McCormack il padre si spegne tra le braccia del figlio, a causa di una gravissima bronchite. Ora di fronte al ragazzino sembra aprirsi un futuro di speranza, dal momento che, guidato dalla sua forza interiore, egli si annette a nuove comunità di sopravvissuti, nelle quali un rinnovato senso di civiltà e di convivenza pacifica sembra farsi debolmente strada.

Allo stesso modo,  Il Convitto di Serhij Žadan è un romanzo in cui trovare una rappresentazione, profondamente lirica e narrativa al tempo stesso, della vita ai tempi di una guerra che distrugge ogni aspetto del quotidiano. Ciò che però non si spezza è la speranza di ritornare un giorno, a quella condizione di sicurezza priva del terrore dei posti di blocco, alla fine dell’inverno e al germoglio di una vita “nuova”.

Emozioni profonde  e sentimenti potenti che nessuna analisi politologica sarà mai capace di cogliere e, ancor meno, di rappresentare e di trasformare in memoria collettiva.